Una antica narrazione riportata alla luce dall'oblio degli ingiusti
Era nato per errore alla fine del diciannovesimo secolo: si notava chiaramente come ci si trovasse a disagio.
Il suo corpo e il suo spirito atletici
entrambi, sembravano costruiti più per vivere in una società antica, virile,
mistica ed eroica che non nella cosiddetta civiltà dei consumi, edonista,
spensierata e cinica.
Il suo carattere era roccioso, il suo
animo severamente venato da romanticismo, il suo ingegno marcatamente cosciente
di se stesso.
Dimostrava così di nutrire una rigorosa
concezione della vita, concezione oggi generalmente ritenuta fonte inesauribile
di guai, quali il dispotismo, la schiavitù, l'inutilità, la noia.
Aveva partecipato alla guerra da
volontario; era stato decorato di medaglia al valor militare e di ritorno,
innamoratosi della figlia d'un gerarca conservatore, l'aveva sposata pur dopo
una infausta prognosi formulata da un medico insigne.
Vinse brillantemente un concorso per i
ruoli amministrativi della sanità, quindi percorse una rapidissima carriera
conseguendo promozioni per merito distinto.
La sua mentalità arcaica, concepiva ancora
lo Stato nel senso tradizionale e cioè espressione d‘un potere esercitato nell'imperio
delle leggi.
Se avesse capito che nello Stato moderno,
al di sopra e al di fuori delle leggi esistono altri centri di potere, che
operano (in nome della collettività) spesso anche contro le stesse, avrebbe
percorso altra carriera.
Nella sanità, l’amministrazione del
pubblico danaro non seguiva (come del resto in molte pubbliche amministrazioni)
le destinazioni previste dalle leggi e dai regolamenti. L’impiego dei danari
versati dall'erario, si ispirava piuttosto che al criterio dell’esigenza scientifica
a quella dell’opportunità politica, della necessità clientelare.
Per cui, se l'Ente prosperava, tuttavia
molte erano le illegalità spesso causa di soprusi e di dispotiche decisioni,
non sempre coincidenti col pubblico interesse.
Contro questo diffuso stato di cose,
inalberò il suo intransigente ossequio all’imperio delle leggi.
Fu rimproverato, poi lusingato, quindi
perseguitato. Ma lui non cedette; percorse la sua strada fino in fondo, non
consentendo che le erogazioni del pubblico danaro evadessero dai crismi della
legalità e dai legittimi controlli.
Nel corso di una inchiesta, fu anche lui
convocato dal magistrato inquirente come testimone.
La Giustizia chiedeva il suo aiuto e,
facendo appello al dovere giuridico e morale del cittadino, gli impose
soprattutto di dire la verità, null’altro che la verità.
La sua coscienza era serena: si trovava
dinanzi alla Maestà della Giustizia, non doveva temere, doveva soltanto fare il
suo dovere nel nome della legge.
Ma all’improvviso tutto mutò.
Quella giustizia che lo aveva accolto con
la mano tesa e spesso lo aveva trattato come ospite di riguardo, ora gli
mostrava un volto gelido, distaccato, impenetrabile.
Lo metteva a sedere su una sedia e lo
fissava con uno sguardo cattivo, carico di diffidenza, di ironia, di disprezzo
e di insidia.
Da accusatore lo ridusse subito nella
triste condizione dell’accusato.
Il dottore rimase incredulo e sconcertato e,
nella sua adamantina buona fede, confinante spesso con l’ingenuità, continuava
ancora a camminare seguendo l’ora solare, mentre tutti gli altri avevano
spostato le lancette dell’orologio sull’ora legale.
Quando fu rinviato a giudizio, ritenne che
vi fosse stato un errore, oppure che il Procuratore Generale fosse rimasto
vittima di una svista, oppure che egli non avesse saputo chiarire bene le sue
cose, oppure che la Giustizia lo avesse machiavellicamente trascinato in aula
più per averlo testimone d’accusa che per perseguirlo come imputato.
Per lui il magistrato era un sacerdote e la
Giustizia non poteva sbagliare.
Diversamente dagli altri imputati, che
solitamente, non nutrono sentimenti di amore verso i loro accusatori, egli si
esprimeva sempre nei riguardi dei suoi inquirenti con ossequio, cercando
disperatamente nelle risorse del suo ingegno una giustificazione al loro spesso
ambiguo operato.
Il primo interrogatorio colpi la fantasia
del Collegio. Si scorse chiaramente l’animo dei magistrati piegarsi sul
discorso dell’imputato, con una sorta di eccitamento che si manifestava in una
visibile tensione intellettuale. La sua forza dialettica aveva creato nell’aula
un clima suggestivo. Il personaggio era balzato nel pretorio in tutta la sua
umanità e la sua vicenda si vivificava nel calore e nel colore d’una narrazione
serrata, puntualmente controllata dai fatti.
Parlò per due giorni.
Così dopo aver narrato i fatti salienti
della sua azione moralizzatrice contro il dilagare della illegalità nel grande
cuore della sanità, dopo aver posto nel dovuto rilievo le persecuzioni subite,
dichiarandosi innocente dalle accuse formulate, fu costretto a tacere.
E quando a conclusione della udienza, il
Presidente lo congedo, rimase quasi deluso.
Se la sua indiscussa intelligenza avesse
captato quella vaga e impalpabile simpatia che il suo “show” aveva diffuso
nell’aria, avrebbe certamente obbedito alle direttive impostegli dai difensori;
tacere o più precisamente disincantarsi dal processo, sino a sbiadire la sua
figura di imputato in un anonimato giudiziario, spesso destinato ad essere
accolto nel limbo di certe assoluzioni date per convinzione, ma anche per inerzia.
Invece lui non si preoccupava di se
stesso. Le esigenze difensive non lo preoccupavano: la strategia e la tattica
processuale non lo interessava, no.
Vedeva il processo da una posizione
diversa: mentre i difensori sedevano vicino a lui imputato, lui sedeva
idealmente dall’altra parte, vicino al Pubblico Ministero, il quale invero non
perdeva occasione per dimostrarsi schizzinoso e indifferente.
Avvenne ciò che rientrava nell’ordine
naturale delle cose.
Il dottore che fino a poco prima appariva
un cavaliere dell’ideale, pian piano cominciò ad assumere nella visione dei
giudici un profilo nuovo e, del tutto errato.
Bastò il suo contegno dibattimentale, per
trasformare un uomo generoso, pulito e legalitario in un ambizioso, vendicativo
e ricattatore.
Questo fu il convincimento a cui si ancorò
l’animo dei giudici, un convincimento che, nonostante tutto non riuscì a
varcare le anticamere delle apparenze.
Così si arrivò alla sentenza.
Dopo una lunga attesa, il Tribunale uscì
con una lugubre sentenza.
Aveva condannato il dottore ad una pena
severissima.
Il dottore ascoltò la sentenza sull'attenti, con l’atteggiamento del “mirate al petto, salvate il viso”.
Sentì nelle carni il morso della
ingiustizia giungere fino al midollo delle ossa, e non capì che quella
decisione aveva in fondo una sua logica: era la logica impersonale e
burocratica del formalismo giuridico che aveva ricalcato la visione del
Procuratore Generale.
Quel giorno gli sembrò che il mondo
dovesse finire.
Invece le cose del mondo si sa come vanno,
pure se a volte uomini dalla tempra morale del dottore non finiscono per
ottenere Giustizia.