Il complesso di Erostrato
Riflessioni sulla patologica ansia dei giudici di sopravvivere nella memoria dei posteri
L’incendiario si
era ripromesso di rendere immortale il suo nome anche a costo di compiere una similare
ed esecrabile azione criminosa.
La saggezza dei
magistrati di Efeso li portò a proibire di pronunciare il nome di Erostrato per
l’eternità, sotto pena di morte.
La damnatio
memoriae sortì un parziale effetto, tramandandone il nome sia pure per pochi e
con denigrabili accostamenti.
Il criminale pastore
greco che ad Efeso, il 21 luglio del 356 a.C., per immortalare il suo nome,
incendiò e distrusse una delle sette meraviglie del mondo, è un dilettante piromane
dinanzi alla pletora di narcisisti magistrati, affetti da sintomatologie compulsive
e maniacali cronicizzate dalla reiterata e manifesta ossessione di protagonismo
recidivo infraquinquennale.
Usanze
consolidate e da abiurare, ma che in fondo costituiscono la crème brûlée dell’ex
bel paese, dove se non si appare dentro l’obsoleto tubo catodico o nelle
invendute testate giornalistiche, si rischia di apparire come un bohémienne démodé.
Ma il più meritevole di attenzione è il
magistrato moralista, che, in adamantina e perfetta buona fede, combatte assillanti
crociate al grido di “Dio lo vuole”.
Ontologicamente, il complesso del
crociato, costituisce una aporia nei confronti del giudice giudicante, il quale
per connaturata definizione è terzo ed imparziale.
L’assunto, in maggior misura, rappresenta
una contraddizione in termini anche per il pubblico ministero, non solo perché
non rientra nelle funzioni sancite dalla legge, ma perché i fanatici travestiti
da pseudo intellettuali, sono stati sempre estremamente pericolosi.
Norberto Bobbio nel suo libro “Italia
civile” ha confessato di detestare “i fanatici con tutta l’anima”, ribadendone
un trentennio dopo il medesimo concetto nello scritto “De senectute”.
In un romanzo del 1911 di Ardengo Soffici
dal titolo “Lemmonio Boreo”, il protagonista, dopo avere divorato riviste e
giornali, era rimasto nauseato da “errori, irregolarità, abusi, vigliaccherie,
buffonate, malignità, stoltezze di ogni risma, d’ogni conio e d’ogni maniera”,
e come rimedio pensò ad “un uomo dall’aspetto fra il sacerdote ed il guerriero,
con viso corrucciato e randello in mano” che girasse tra le contrade e
sanzionasse “le indegnità commesse con legnate a tutto spiano”.
Lemmonio Boreo, il novello cavaliere
errante, assume la veste di nefasto e superficiale vendicatore, per una
improbabile crociata avallata da una invisa giustizia autodafé evocante “L’uomo
senza qualità” di Robert Musil.
Sono esperienze pericolose quelle
paventate da una donchisciottesca magistratura, che portano alla creazione
dell’eroe e da questo al demiurgo ed all’uomo della provvidenza.
Per affrontare e risolvere le
controversie, quello che serve al magistrato è riserbo ed equilibrio, per
finalmente ottenere una giustizia mite in un paese normale, non dimenticando
che si giocano le sorti liberali delle persone e dei loro patrimoni.
Probabilmente sarò un romantico della
giustizia, ma cosa rimane se ai puri si tolgono le illusioni.
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