domenica 27 gennaio 2019

Il giovane scienziato ebreo

Una antica narrazione riportata alla luce da anni di oblio




Era nato in Calabria a Radicena: terra di passaggio.

Nei pressi della zona denominata "Chianu 'i San Basili" (Piano di San Basilio), nei pressi dell’odierna piazza Garibaldi.

Giovanissimo si trasferì a Roma dove si innamora di Giovanna, si fidanza con Giovanna, non vede altro che Giovanna, sposa Giovanna; ne è felicemente travolto e travolge Giovanna e Giovanna gli regala Antonio e Carlo.

Il suo inesauribile interesse per lo studio della mente umana sconvolta dalla follia, lo porta all’insegnamento universitario.

Una frase lo aveva particolarmente colpito, una frase che è nel frontespizio della "Storia della pazzia" di Bruno Cassinelli:
"Se un giorno le belve dovranno giudicare gli uomini, porteranno come atto di accusa contro di noi la ferocia degli uomini sani contro gli uomini folli".
E più ancora fu colpito dalla dedica del libro: "Questo studio su una realtà nel cui disperso dolore restano assolte le creature e condannata la materia".

In questa assoluzione delle creature, in questa condanna della materia, nel desiderio prepotente di confortare quel disperso dolore, iniziò lo studio delle discipline psichiatriche, penetrando nella mente dell'uomo, scrutando le anamnesi remote, i fatti recenti, i fatti dell'infanzia, i traumi fisici, i traumi psichici, entrando nel regno emozionale del malato, soffrendo le sue ansie e i suoi martiri.

Dinanzi al dolore, il tratto severo del suo volto, il suo piglio aggressivo, il suo artiglio si mutava in una infinita pietà, in un sorriso dell'anima.

Erano quelli i tempi in cui la scuola psichiatrica italiana, la scuola del Cerletti antesignano dell'elettro-shock, del Gozzano, del Ferrio, il sistematico della disciplina, aveva assunto gli insegnamenti della scuola germanica, della scuola del Kraepelin, dello Schneider, del Kolle, i quali poi avevano tratto insegnamento dal positivismo italiano di Ardigò e dall'antropologia del Lombroso.

Così inizia questo studio in una maniera estremamente profonda, ma con una sua particolare tipicità.

Chi l‘aveva ascoltato asseriva che egli restava sempre ancorato alla sua cultura letteraria: il che rendeva l'esposizione delle sue idee facile e affascinante.

Poneva in parallelo il personaggio del mondo letterario con il soggetto che studiava. Era colto: leggeva moltissimo e aveva anche una memoria veramente prodigiosa, salvo poi a non salutare qualcuno che conosceva, o salutare qualcuno che non aveva mai visto.

Aveva un modo di parlare autonomo e squisitamente personale.

Nello studio della paranoia, affrontava il tema dei deliri nei quali vedeva le deformazioni degli aspetti reali della vita così come si vedono deformate le immagini negli specchi concavi.
Nel delirio mistico, intuiva l'ansia del malato di raggiungere l'eternità dello spirito e la impossibilità di realizzare questa aspirazione.

E di qui la frattura tra vita logica e vita affettiva.

Nell’attraversare una corsia manicomiale, ed a un certo momento vide una povera vecchia scarmigliata, con gli abiti a brandelli e un'espressione drammatica sul volto: era l'immagine della disperazione e della sofferenza.

Stava a terra, prona, con le mani in avanti, proferendo preghiere senza senso e in tono lamentoso.

Egli, con piglio stentoreo disse una frase bellissima: “Chissà quanti secoli pregano in quelle vene".

Con questa riflessione superò l'anamnesi remota e gentilizia e intuì le forme ereditarie più antiche, anticipandone lo studio del codice genetico.

Scomparve con la famiglia, dissolvendosi, come molti ebrei, tra le fiamme di quel male che avvampò tra le menti malate, che con piglio scientifico aveva studiato.

venerdì 11 gennaio 2019

dott. Antonino ROMEO (1884-1924) - Il Capitano Medico -

Continua la narrazione in silloge di personaggi del pianoro Taurianovese





dott. Antonino ROMEO  (1884-1924)
- Il Capitano Medico -


Nacqui a Jatrinoli
il 27 dicembre 1884
procreato dal farmacista Michele
e dalla radicenese Vittoria Lucrezia Sofia.

All’anagrafe per appagare gli avi
fui Natale Antonino Vincenzo.

Dopo la laurea in medicina
e l’esperienza del primo conflitto
mi raffermai nella Regia Milizia
di stanza al campo di aviazione
di Lonate Pozzolo.

Il 3 marzo del 1913
mi sposai con la giovane
Elvira Curatola Caruso.

Il 19 settembre del 1924
in volo di perlustrazione
con l’Ansaldo A.300
per una anomalia meccanica
persi la vita
col grado di Capitano medico.

Eppure se mi scorgo
ancora posso udire le voci
vedere le immagini
ascoltare i suoni
della mia giovinezza
in via Pozzo.

Ora cammino di notte
sui viottoli selciati del triste contado
dove mia madre ancora
alla finestra mi attende
bisbigliando preghiere
e spiando la rua
dietro ai vetri opachi.

Piangete ancora per me
sorelle Eliadi nel fiume Eridano
ondeggiando il vostro capo
tremante sulla riva:
io in vita fui come il vento.


martedì 8 gennaio 2019

La contessa Lara

Narrazione sul famoso omicidio della poetessa Eva Giovanna Antonietta Cattermole



Anche attraverso la rilettura degli atti di un processo possiamo cogliere qualche aspetto di "come eravamo".

Il "come giudicavamo", qualora, poi, di un processo si colga il ”paesaggio”, alla maniera ad esempio, del "1912 + 1" di Sciascia, può risultare non rigidamente ancorato all'attività decisoria finale svolta dal giudice ma comprensivo del riverbero processuale dei valori e dei "pregiudizi" a rigore esterni al processo.

A parte il dato, più che probabile nelle riletture fatte anni dopo un processo, della differenza del quadro normativo, nelle deposizioni dei testi, negli interrogatori degli imputati, nella discussione dei periti, e, qua e là, anche nell'intercalare di chi dirigeva il dibattito, ma, in particolar modo, nelle requisitorie e nelle arringhe," l’aria dei tempi" può essere anche particolarmente evidente.

Tuttavia, la rilettura presenta l'ostacolo, man mano che si va indietro nel tempo più difficile da superare, della conservazione non sicura degli atti processuali e, quasi, per necessità, e limitata alla rivisitazione dei processi “celebri” che possono, passando per la mediazione dei giornali e delle collane editoriali com'era, un tempo, quella di Corbaccio, essere consultati.

La curiosità di “come giudicavamo” o “venivamo giudicati” nella Roma umbertina, in questo mondo che parve ad alcuni contemporanei “nuovo” tale da assicurare “i comodi modesti dell'agiatezza lavoratrice”, soprattutto, negli edifici e a Matilde Serao, per converso, ”esecrazion degli occhi, esecrazion dell'anima", il processo, celebratosi dal 3 novembre 1897, nell'oratorio di San Filippo Neri, a carico di Giuseppe Pierantoni accusato dell'omicidio in danno della contessa di Lara (nom de plume di Evelyn Cattermole Mancini) può considerarsi indubbiamente “esemplare”.

Anzitutto, la protagonista, la morta, non il vivo, poetessa e scrittrice, amica, anzi, di più, di Mario Rapisardi, di Cesareo e moglie separata del terzogenito di Pasquale Stanislao Mancini.

Il "sangue", russo da parte di madre, scozzese da parte paterna, dunque, nel linguaggio del tempo, bollente di “commisti istinti”, con quel "naturale" bisogno d'avventura, ma anche il sangue versato dal marito nel duello con l'amante della moglie, rimasto ucciso a Firenze.

Lo pseudonimo contessa di Lara di byroniana memoria e lo pseudonimo dell'ambiente della maggior parte dei testimoni, da “Febea“ a “Richel” e la Carmen, il "chi ama fa così” che, per la verità, nella rilettura delle testimonianze, pare più espediente per evitare l'insistenza dell'assassino che l’identificazione del ruolo.

E, poi, ancora, il contrasto tra la poetessa dalla squisita sensibilità morale, la vivissima intelligenza, la nobiltà d'animo e la bontà di cuore.

Un inno al bene e all'amore... “tutta la vita” e la “mediocrità dell'ingegno” “la volgarità dei sentimenti“ dell'imputato, nella prospettazione del teste, marchese Monaldi.

Segno dei tempi, la parola d'onore data, epperò, senza richiesta alla Corte, da un ufficiale per smentire una lettera a sua firma che era stata, nella versione dell'imputato, prova di un rapporto d’amore.

“Vi avverto”, dice ad un certo punto, il Presidente, che “quanto dite é smentito dagli atti”, un'avvertenza inconcepibile nel nostro tempo ma allora spiccata preferenza allo "scritto" dei verbali istruttori.

Datata pure la trasformazione dell'aula in luogo di scontro dei campioni dell'eloquenza, l'accusatore "implacabile", Pio Cavalli, l'usignolo, Pietro Rosano e, alla difesa, Salvatore Barzilai. Un battersi per il "movente" che, nelle parole della morente, era la brama di denaro dell'ex suo convivente e, nella prospettazione "in subordine" della difesa dell'imputato, era lo stato d'ira, lo scatto della gelosia per lo stornamento delle attenzioni della "donna amata". Una "provocazione", come, a osservare dall'attuale punto di vista, possa essere considerato "fatto ingiusto" la libera determinazione del partner di troncare un rapporto, l'uso di questa libertà.

E proprio nel quarto dei sei "quesiti" proposti dal Presidente alla Giuria, questa "provocazione" prende posto ".... l'accusato Pierantoni Giuseppe commise il fatto... nell'impeto d'ira o di intenso dolore determinato da ingiusta provocazione?".

I dubbi dei giurati furono chiariti in quarantacinque minuti e il verdetto fu quello che sì l'imputato aveva agito "in stato d'ira o d'intenso dolore".

Conformemente alle richieste del Procuratore Generale, la pena fu quella di anni undici e mesi otto di reclusione.

Va detto che, dopo il processo, ci fu una sottoscrizione per raccogliere i fondi per una tomba in favore della vittima dell'omicidio e ci furono anche processi civili per l'eredità di una rendita lasciata dalla contessa di Lara all'ufficiale di marina del quale si era innamorata ma la sottoscrizione non si seppe come e dove fosse finita e le cartelle della rendita non furono mai più trovate.

«Le rose che de' suoi baci hanno odore / Non mi bastano più: lui solo io voglio.»
(Contessa Lara, Nuovi versi, 1894)