Narrazione sul
famoso omicidio della poetessa Eva Giovanna Antonietta Cattermole
Anche attraverso la rilettura degli atti
di un processo possiamo cogliere qualche aspetto di "come eravamo".
Il "come giudicavamo", qualora, poi, di un processo si colga il
”paesaggio”, alla maniera ad esempio, del "1912 + 1" di Sciascia, può
risultare non rigidamente ancorato all'attività decisoria finale svolta dal
giudice ma comprensivo del riverbero processuale dei valori e dei
"pregiudizi" a rigore esterni al processo.
A parte il dato, più che probabile nelle
riletture fatte anni dopo un processo, della differenza del quadro normativo,
nelle deposizioni dei testi, negli interrogatori degli imputati, nella
discussione dei periti, e, qua e là, anche nell'intercalare di chi dirigeva il
dibattito, ma, in particolar modo, nelle requisitorie e nelle arringhe,"
l’aria dei tempi" può essere anche particolarmente evidente.
Tuttavia, la rilettura presenta
l'ostacolo, man mano che si va indietro nel tempo più difficile da superare,
della conservazione non sicura degli atti processuali e, quasi, per necessità,
e limitata alla rivisitazione dei processi “celebri” che possono, passando per
la mediazione dei giornali e delle collane editoriali com'era, un tempo, quella
di Corbaccio, essere consultati.
La curiosità di “come giudicavamo” o “venivamo
giudicati” nella Roma umbertina, in questo mondo che parve ad alcuni
contemporanei “nuovo” tale da assicurare “i comodi modesti dell'agiatezza
lavoratrice”, soprattutto, negli edifici e a Matilde Serao, per converso, ”esecrazion
degli occhi, esecrazion dell'anima", il processo, celebratosi dal 3
novembre 1897, nell'oratorio di San Filippo Neri, a carico di Giuseppe
Pierantoni accusato dell'omicidio in danno della contessa di Lara (nom de plume
di Evelyn Cattermole Mancini) può considerarsi indubbiamente “esemplare”.
Anzitutto, la protagonista, la morta, non
il vivo, poetessa e scrittrice, amica, anzi, di più, di Mario Rapisardi, di
Cesareo e moglie separata del terzogenito di Pasquale Stanislao Mancini.
Il "sangue", russo da parte di madre,
scozzese da parte paterna, dunque, nel linguaggio del tempo, bollente di “commisti
istinti”, con quel "naturale" bisogno d'avventura, ma anche il sangue
versato dal marito nel duello con l'amante della moglie, rimasto ucciso a
Firenze.
Lo pseudonimo contessa di Lara di
byroniana memoria e lo pseudonimo dell'ambiente della maggior parte dei
testimoni, da “Febea“ a “Richel” e la Carmen, il "chi ama fa così” che, per
la verità, nella rilettura delle testimonianze, pare più espediente per evitare
l'insistenza dell'assassino che l’identificazione del ruolo.
E, poi, ancora, il contrasto tra la
poetessa dalla squisita sensibilità morale, la vivissima intelligenza, la
nobiltà d'animo e la bontà di cuore.
Un inno al bene e all'amore... “tutta la
vita” e la “mediocrità dell'ingegno” “la volgarità dei sentimenti“ dell'imputato,
nella prospettazione del teste, marchese Monaldi.
Segno dei tempi, la parola d'onore data, epperò,
senza richiesta alla Corte, da un ufficiale per smentire una lettera a sua
firma che era stata, nella versione dell'imputato, prova di un rapporto
d’amore.
“Vi avverto”, dice ad un certo punto, il
Presidente, che “quanto dite é smentito dagli atti”, un'avvertenza
inconcepibile nel nostro tempo ma allora spiccata preferenza allo
"scritto" dei verbali istruttori.
Datata pure la trasformazione dell'aula in
luogo di scontro dei campioni dell'eloquenza, l'accusatore
"implacabile", Pio Cavalli, l'usignolo, Pietro Rosano e, alla difesa,
Salvatore Barzilai. Un battersi per il "movente" che, nelle parole
della morente, era la brama di denaro dell'ex suo convivente e, nella
prospettazione "in subordine" della difesa dell'imputato, era lo
stato d'ira, lo scatto della gelosia per lo stornamento delle attenzioni della
"donna amata". Una "provocazione", come, a osservare
dall'attuale punto di vista, possa essere considerato "fatto
ingiusto" la libera determinazione del partner di troncare un rapporto,
l'uso di questa libertà.
E proprio nel quarto dei sei
"quesiti" proposti dal Presidente alla Giuria, questa
"provocazione" prende posto ".... l'accusato Pierantoni Giuseppe
commise il fatto... nell'impeto d'ira o di intenso dolore determinato da
ingiusta provocazione?".
I dubbi dei giurati furono chiariti in
quarantacinque minuti e il verdetto fu quello che sì l'imputato aveva agito
"in stato d'ira o d'intenso dolore".
Conformemente alle richieste del
Procuratore Generale, la pena fu quella di anni undici e mesi otto di reclusione.
Va detto che, dopo il processo, ci fu una
sottoscrizione per raccogliere i fondi per una tomba in favore della vittima
dell'omicidio e ci furono anche processi civili per l'eredità di una rendita
lasciata dalla contessa di Lara all'ufficiale di marina del quale si era
innamorata ma la sottoscrizione non si seppe come e dove fosse finita e le
cartelle della rendita non furono mai più trovate.
«Le rose che de' suoi baci hanno odore / Non
mi bastano più: lui solo io voglio.»
(Contessa Lara, Nuovi versi, 1894)
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