sabato 4 maggio 2019

Antonio FLOCEANO (prima metà del '500) - Il Giurista -

Un dimenticato giurista narrato in silloge nei canti del pianoro Taurianovese




Antonio FLOCEANO  (prima metà del '500)
- Il Giurista -
  

Nacqui nel Regno di Napoli
nella prima metà del ‘500.

La guerra dinastica
tra angioini e aragonesi
aveva portato morte e terrore
nella sperduta contrada Jatrinolese
governata dal viceré spagnolo
Raimondo Cardona.

La mia esistenza fu segnata
a due anni dalla perdita della madre
e diciassette anni dopo
dalla dipartita di mia sorella
- entrambe per parto -.

Tutta la vita portai
questi dolori
silenziosamente nel cuore.

Mio zio precettore
preconizzando un futuro ministro del culto
mi relegò nel Collegio di Oppido Mamertina
dove s’impartiva
il migliore magistero religioso.

Mi allontanai presto dalla avita contrada natia
collocandomi nella capitale napoletana
e forgiandomi agli studi giuridici
appresi l’arte del giureconsulto.

La padronanza degli istituti processuali
inquadrati nella logica lineare
della dottrina e giurisprudenza
mi permisero di far apparire ovvio e banale
il più arduo ragionare.

Avevo acquisito l’arte della repartie
la voce baritonale
col timbro pieno di armonie
mi collocarono tra le eminenze
del Foro napoletano.

Ma le mie magistrali qualità
erano il frutto di fatiche, dubbi
tormenti, meditazioni e rifacimenti.

Dal vivere appresi
che la sofferenza rivela
il volto ostinato della solitudine
l’impossibilità di dimenticare se stessi
e la necessità di rimanere incatenati
- come il prigioniero platonico –
alle ombre della propria caverna.

Delle mie opere nulla è rimasto
la sola iscrizione latina
che ricordi la mia esistenza
fu forgiata nel 1571
dallo storico Gabriele Barrio:
Iatrinonum quasi medicinale cum linis optimis.
Ex hoc pago fuit Antonius Floceanus iureconsultus eximius
nostra aetate, qui Neapoli magnae fuit existimationis”.

mercoledì 3 aprile 2019

Il Pretore di origine campana

Amarcord sull'essenza del giudicare



Il primo Giudice che conobbi, in una fredda giornata d'inverno in un anno di tanti anni fa, appena nominato Vicepretore del Mandamento di Palmi, fu un canuto Pretore che si diceva fosse di origine napoletana, trasferitosi per un mal d’amore nella lontana contrada calabrese.

Il Pretore, quasi per innata predilezione, mi raccontava con passione le sue antiche esperienze professionali e di vita.

Un giorno lo andai a trovare, per una urgente delega, nella sua amena e francescana abitazione.

Felice per l’inaspettata visita, senza indugiare, conoscendone la mia insaziabile passione, mi ostentò un volume delle orazioni del giurista Carnelutti con la firma e la dedica in calce alla sovraccoperta.

Poi cominciò, appalesandone una arcana necessità a raccontarmi di come agli albori magistratuali nella prima sede piemontese, si faceva accompagnava sovente da un cancelliere, più anziano allampanato ed intabarrato al punto da sembrare un cipresso.

In quel paese ai confini con la Francia, le strade esistenti, quasi tutte, dedicate ai più noti detrattori garibaldini, erano pavimentate con ciottolame lavico, si presentavano alcune anguste e ripide ed in qualche punto, in particolare negli angoli, erano costituite da rampe.

Il ciottolame emetteva un chiarore che nelle notti buie dava il senso dell'orientamento e fungeva da pubblica illuminazione.

Il cancelliere procedeva a passi regolari seguito dal Pretore cantando a squarciagola e allorché cessavano lo sforzo vocale, cominciavano a fischiare un noto motivo di una marcetta militare.

Mi spiegò, che il comportamento sonoro dei due mirava a segnalare la loro presenza.

Infatti quasi tutti gli abitanti del paesino piemontese, in certe ore serotine rovesciavano per strada il contenuto dei vasi da notte, ma all'approssimarsi del passaggio dei due, rinviavano l'operazione chiudendo rumorosamente i vecchi e traballanti infissi lignei delle finestre che sembravano fossili.

Da quel giorno della mia giovinezza, nel corso della vita ho conosciuto innumerevoli Giudici e mi sono reso conto che il rischio che correva quel Giudice era di sapore arcadico e che invece ben più pericolosi getti insidiavano ed insidiano gli altri.

Il Giudice veramente affidabile è quello indipendente ed alcuni "getti" sono costituiti da raccomandazioni, segnalazioni o comunque pressioni parassitarie provenienti da taluni ambienti anche, associativi e politici.

Il Giudice deve comprendere che quell'attentato alla sua indipendenza, se non trova una pronta ed energica ripulsa, cagiona immancabilmente la caduta dei valori ideali di Giustizia e che se la sua reazione può cagionare scarsa simpatia agli interessati delusi, tra i primi a stimarlo sono questi ultimi!

E che dire della ipertrofia della legislazione il più delle volte poco ponderata e poco coordinata, emessa sull'onda di una provvisoria protesta popolare e che forma una giungla vasta ed intricata che non è agevole attraversare senza la guida di un buon esperto o quanto meno senza la bussola di un po’ di senso giuridico che non è la stessa cosa del buon senso comune.

Tanti sacrifici qualificano nel quotidiano professionale la nobile funzione del giudicare: la sentenza è sempre una creazione di una coscienza viva, sensibile, vigilante ed umana.

E che dire di altri “getti” di certe esternazioni fuori dalla sede istituzionale, di alcune uscite spettacolari e di improvvise intemperanze nei rapporti con gli altri operatori di Giustizia?

E' pur vero che nell'amministrazione giudiziaria molte cose non vanno per il verso giusto, ma non è necessario, per mantenere alto il proprio prestigio abbassare quello degli altri, né perdere il tratto signorile e pacato e delle volte anche deferente nei confronti dei più anziani che ne siano meritevoli durante l'esercizio del proprio dovere.

Va aggiunto che molte volte taluni Giudici si inseriscono nel circuito delle responsabilità politiche di partito: le luci della ribalta politica sono alternative a quelle della celebrazione dei processi.

La fenomenologia sociale della parola per creare la popolarità politica del singolo Giudice non è che la sua progressiva distruzione.

I retaggi di un nome onorato e di una vita vissuta all'insegna della ricerca della verità e della Giustizia, sono i migliori beni che un Giudice possa lasciare in eredità alla sua famiglia e a quella della Magistratura.

Un mio ammirato e da tempo assente amico che un tempo giudicava, ben scriveva: "So che in ogni uomo che giudico, giudico me stesso...so che il diritto è sofferenza per chi lo subisce, a cui toglie qualcosa o toglie tutto...Così cerco l'innocenza piuttosto che la colpa...la verità che io cerco è bagnata di sudore...Non ho niente e nessuno da vendicare, niente e nessuno da perdonare. Sono solo un uomo, un piccolo uomo che ha paura del buio, che cerca la luce, il chiarore di una scintilla, che si specchia timoroso nell'anima di un altro uomo per giustificarlo se possibile o almeno comprenderlo...".


sabato 16 marzo 2019

Il posto degli ulivi

Considerazioni su una terra antica, di cultura mai ovvia e duttile nell'ingegno



Taurianova è il mio posto tra gli ulivi millenari, la contrada pre aspromontana medievale da dove scrivo a me stesso lettere che mai spedirò, il mio osservatorio privilegiato di quell'immenso teatro che è il mondo e della strana avventura che vi si svolge, la vita, l‘Italica che mai ho lasciato, la cassapanca ove custodisco, riposti, i ricordi di generazioni.

Taurianova, tassello d'un vasto e ricomposto mosaico, una sola piccola parte di esso, eppure l'essenza del tutto.

Scrigno che racchiude preziosi tesori, lontani ricordi.

Terra intrisa di contrasti, di ossimori, perché essa stessa ne è sede e teatro, genesi e nascituro, vita e morte.

C'è una Taurianova stupida (”buona”), e un'altra intelligente (“aperta"): una sofferente ed una vendicativa, la parte buona e quell'altra cattiva, la luce e il lutto, la speranza e la dannazione.

Taurianova come metafora e come trappola, giardino e clausura, riso e pianto, allegoria e realtà.

Quella stessa contrada che si scinde in Jatrinoli e Radicena, per poi ricomporsi, in due parti uguali e contrarie.

Al pari dell'uomo che sente il conflitto permanente delle due componenti che in lui convivono, volte costantemente alla scissione e alla ricomposizione, in un equilibrio precario e ribelle, perciò anarchico, per divenire lotta e passione, ma poi armonia e quiete: quindi riprendere il dolce-amaro gioco della vita.

Taurianova è la scoperta della sopravvivenza di mestieri creduti scomparsi.

E’ il ricordo della civiltà delle botteghe le "putiche" del falegname, del sarto, del barbiere, del fabbro, dell'oste, del calzolaio.

Taurianova è il ricordo dei giorni dell'infanzia, di quei giorni che furono (e anche di quegli altri allora segnati, che mai saranno), trascorsi fra persone care (che via via vediamo scomparire precedendoci nel viaggio del mistero), fra cose piacevoli, in parte irrimediabilmente perdute, che solo i ricordi della memoria riescono a far rivivere, proprio come in un inesauribile “museo d'ombre”.

Taurianova è la terra dei paradossi, che meglio rendono l'idea del concreto, dove finzione e realtà hanno un confine cosi labile da confondersi e, dunque, fondersi.

Nessuno sa né può capire, se qui non ha radici, quanta ”essenza" stia dentro l'uomo di Calabria, nel suo essere e sentirsi tale, nella sua rassegnata rassegnazione al dolore, nella sua atavica sofferenza, nel suo occulto (ma non troppo) desiderio di trasgressione della regola, legale o morale che sia.

Il detenuto apprezza più d'ogni altro il gusto della libertà, poiché ne è privato, così come il vegliardo ama quella gioventù, un tempo sottovalutata, dopo averla vista irrimediabilmente svanire.

Il calabrese apprezza il gusto della trasgressione, per godere, oltre i margini della legalità, il piacere del proibito.

E‘ questa una componente primaria di quella cultura araba, qui radicata, che si avverte, ma non si vede, perché vedere non si deve.

Provate a trovarvi nei vicoli stretti e sinuosi, posti nel cuore antico d'ogni città o paese: uomini e donne appaiono, scompaiono, riappaiono come in una sequenza scenica, quasi come in un gioco d'ombre cinesi, e ciascun ”intruso“, senza che se ne accorga, in ogni suo passo è vigilato, controllato, pedinato.

Essere calabresi significa prima di tutto, in ogni caso, essere un po’ diversi dagli altri, qualunque sia il senso che a questa diversità si voglia attribuire.

Ma essere calabresi o taurianovesi vuol dire anche non perdersi le albe e soprattutto i tramonti, tutto vi sembrerà il frutto di una terra incantata e magica.

Ai crampi allo stomaco rispondete con un pane appena tirato fuori dal forno a legna, che gusterete ancor di più dopo averlo tagliato a metà e farcito con olio d'oliva, origano, pepe rosso, e una fetta di formaggio pecorino.

Fermatevi, come mia moglie, presso una delle tante bancarelle all'aperto per gustare, secondo la stagione, e comunque sempre accarezzati dal sole tutto l'anno una fetta d'anguria, o una succosa arancia, oppure per addentare una mela, che vi somiglierà a quella di Adamo...

Dissetatevi ad una fontanella o cercate un chiosco per farvi servire “na spremuta” di limone in uno spruzzo di acqua seltz, con l'aggiunta di una punta di sale che ha anche un effetto apotropaico.

Se vi trovate in difficoltà, rivolgetevi a un anziano: porrà al vostro servizio la proverbiale ospitalità, senza chiedervi nulla, nemmeno il vostro nome, ed avrà già dimenticato il vostro volto prima che cerchiate di ringraziarlo invano: sarà già sparito.

Ma soprattutto inforcate bene gli occhiali della mente per ammirare quel che la Calabria è più propensa a lasciar vedere agli intenditori: i suoi tesori nascosti.

Non stranizzatevi dunque se, in cerca, magari in qualche bottega museo, d'antichi oggetti, finirete, senza volerlo, con l'essere ammaliati dalla voce e fulminati dalla forza degli occhi di qualche leggiadra fanciulla del posto, o col ritrovare, strada facendo, la sirena Ligea, oppure con l'imbattervi nella innocente ninfa Scilla o nel disperato Glauco.

Capita, più spesso di quanto non osiate immaginare.

mercoledì 27 febbraio 2019

Don Roccu u scrivanu

Una antica macchietta del Foro riportata alla luce


Stanotte, in sogno, mi sono trovato in un’aula di Giustizia dell’aldilà, dove si celebrano i processi catartici, fittamente affollata da tanti trapassati che avevano fatto parte del mondo giudiziario.

Presiedeva un Giudice con i baffetti alla Chaplin e con i capelli scuri a spazzola che richiamava costantemente all’ordine con inflessioni ed espressioni del miglior vernacolo calabrese.

Intravidi don Roccu u scrivanu.

Don Roccu u scrivanu era stato il personaggio tipico che nelle terre del sud Italia si accompagna all’avvocato penalista con varie mansioni.

Infatti, per circa 50 anni ha accompagnato un avvocato, portandogli la borsa e libri, assistendo in udienza in piedi, facendo da tramite per varie incombenze, con clienti e terzi e curando anche qualche recupero con il suo "buon parlare".

Aveva frequentato solo le prime classi elementari ed in tutte le udienze aiutava ad indossare la toga in Pretura, chiedendo immancabilmente qualche diritto di toga.

Nel sogno intesi che l’udienza era già cominciata ed avvicinandomi percepivo la voce della difesa che diceva: “...E’ vero" che da sempre ha frequentato l’udienza penale”...E’ vero che alle “sue persone” giudicabili spiegava, senza alcuna esitazione o dubbio la situazione “giuridica”...E’ vero che ove le stesse non avessero provveduto al versamento delle “marche” in misura variante a seconda dei casi, si sforzava di dimostrare l’indispensabilità di detto adempimento...E’ vero che una volta risolto un tale problema le sue previsioni divenivano più ottimistiche...E’ vero che dopo la pronunzia della sentenza faceva seguire l’immancabile richiesta della “toga”.

Ma è pur vero che assicurava sempre la sua presenza in aula sistemandosi in posizione né vicina al pretorio e né vicina alla sbarra, costantemente in piedi, e con l’ansia dei giudicabili attendeva l’esito; quando era negativo faceva seguire il suo commento con parole di speranza per i gradi futuri del giudizio...”.

Mi fermai, perché il processo è come un magma primordiale che ha le sue radici nell’inconscio e subito riconobbi don Roccu u scrivanu per la irremovibilità delle sue opinioni.

Era ancora in piedi e con il vestito scuro e sdrucito degli ultimi difficili tempi!

Mi commossi al pensare i primi e anonimi anni di professione e perché anch'io ero cambiato con l’età tanto da non essere nemmeno riconosciuto dagli astanti.

L’Avvocato, bassino come don Roccu u scrivanu, continuava, con sussiego, a sfoderare il suo repertorio ben noto e senza sorprese per chi lo avesse ascoltato altra volta!

Don Roccu u scrivanu, personaggio irripetibile di un’epoca lontana e già obliata, nel mentre il difensore batteva con il palmo della mano il tavolo, ammiccava e quando la voce cresceva, si lasciava sfuggire un accenno di sorriso di compiacimento che doveva essere arsenicale per l’accusa.

Nel sogno non ero giunto in tempo per ascoltare l’accusa e rimasi a lungo ed invano in attesa di conoscere la decisione del Giudice.

Svegliandomi anticipatamente ebbi la sensazione di dire a me stesso: il responso a quando?

Forse al prossimo sogno.

domenica 27 gennaio 2019

Il giovane scienziato ebreo

Una antica narrazione riportata alla luce da anni di oblio




Era nato in Calabria a Radicena: terra di passaggio.

Nei pressi della zona denominata "Chianu 'i San Basili" (Piano di San Basilio), nei pressi dell’odierna piazza Garibaldi.

Giovanissimo si trasferì a Roma dove si innamora di Giovanna, si fidanza con Giovanna, non vede altro che Giovanna, sposa Giovanna; ne è felicemente travolto e travolge Giovanna e Giovanna gli regala Antonio e Carlo.

Il suo inesauribile interesse per lo studio della mente umana sconvolta dalla follia, lo porta all’insegnamento universitario.

Una frase lo aveva particolarmente colpito, una frase che è nel frontespizio della "Storia della pazzia" di Bruno Cassinelli:
"Se un giorno le belve dovranno giudicare gli uomini, porteranno come atto di accusa contro di noi la ferocia degli uomini sani contro gli uomini folli".
E più ancora fu colpito dalla dedica del libro: "Questo studio su una realtà nel cui disperso dolore restano assolte le creature e condannata la materia".

In questa assoluzione delle creature, in questa condanna della materia, nel desiderio prepotente di confortare quel disperso dolore, iniziò lo studio delle discipline psichiatriche, penetrando nella mente dell'uomo, scrutando le anamnesi remote, i fatti recenti, i fatti dell'infanzia, i traumi fisici, i traumi psichici, entrando nel regno emozionale del malato, soffrendo le sue ansie e i suoi martiri.

Dinanzi al dolore, il tratto severo del suo volto, il suo piglio aggressivo, il suo artiglio si mutava in una infinita pietà, in un sorriso dell'anima.

Erano quelli i tempi in cui la scuola psichiatrica italiana, la scuola del Cerletti antesignano dell'elettro-shock, del Gozzano, del Ferrio, il sistematico della disciplina, aveva assunto gli insegnamenti della scuola germanica, della scuola del Kraepelin, dello Schneider, del Kolle, i quali poi avevano tratto insegnamento dal positivismo italiano di Ardigò e dall'antropologia del Lombroso.

Così inizia questo studio in una maniera estremamente profonda, ma con una sua particolare tipicità.

Chi l‘aveva ascoltato asseriva che egli restava sempre ancorato alla sua cultura letteraria: il che rendeva l'esposizione delle sue idee facile e affascinante.

Poneva in parallelo il personaggio del mondo letterario con il soggetto che studiava. Era colto: leggeva moltissimo e aveva anche una memoria veramente prodigiosa, salvo poi a non salutare qualcuno che conosceva, o salutare qualcuno che non aveva mai visto.

Aveva un modo di parlare autonomo e squisitamente personale.

Nello studio della paranoia, affrontava il tema dei deliri nei quali vedeva le deformazioni degli aspetti reali della vita così come si vedono deformate le immagini negli specchi concavi.
Nel delirio mistico, intuiva l'ansia del malato di raggiungere l'eternità dello spirito e la impossibilità di realizzare questa aspirazione.

E di qui la frattura tra vita logica e vita affettiva.

Nell’attraversare una corsia manicomiale, ed a un certo momento vide una povera vecchia scarmigliata, con gli abiti a brandelli e un'espressione drammatica sul volto: era l'immagine della disperazione e della sofferenza.

Stava a terra, prona, con le mani in avanti, proferendo preghiere senza senso e in tono lamentoso.

Egli, con piglio stentoreo disse una frase bellissima: “Chissà quanti secoli pregano in quelle vene".

Con questa riflessione superò l'anamnesi remota e gentilizia e intuì le forme ereditarie più antiche, anticipandone lo studio del codice genetico.

Scomparve con la famiglia, dissolvendosi, come molti ebrei, tra le fiamme di quel male che avvampò tra le menti malate, che con piglio scientifico aveva studiato.

venerdì 11 gennaio 2019

dott. Antonino ROMEO (1884-1924) - Il Capitano Medico -

Continua la narrazione in silloge di personaggi del pianoro Taurianovese





dott. Antonino ROMEO  (1884-1924)
- Il Capitano Medico -


Nacqui a Jatrinoli
il 27 dicembre 1884
procreato dal farmacista Michele
e dalla radicenese Vittoria Lucrezia Sofia.

All’anagrafe per appagare gli avi
fui Natale Antonino Vincenzo.

Dopo la laurea in medicina
e l’esperienza del primo conflitto
mi raffermai nella Regia Milizia
di stanza al campo di aviazione
di Lonate Pozzolo.

Il 3 marzo del 1913
mi sposai con la giovane
Elvira Curatola Caruso.

Il 19 settembre del 1924
in volo di perlustrazione
con l’Ansaldo A.300
per una anomalia meccanica
persi la vita
col grado di Capitano medico.

Eppure se mi scorgo
ancora posso udire le voci
vedere le immagini
ascoltare i suoni
della mia giovinezza
in via Pozzo.

Ora cammino di notte
sui viottoli selciati del triste contado
dove mia madre ancora
alla finestra mi attende
bisbigliando preghiere
e spiando la rua
dietro ai vetri opachi.

Piangete ancora per me
sorelle Eliadi nel fiume Eridano
ondeggiando il vostro capo
tremante sulla riva:
io in vita fui come il vento.


martedì 8 gennaio 2019

La contessa Lara

Narrazione sul famoso omicidio della poetessa Eva Giovanna Antonietta Cattermole



Anche attraverso la rilettura degli atti di un processo possiamo cogliere qualche aspetto di "come eravamo".

Il "come giudicavamo", qualora, poi, di un processo si colga il ”paesaggio”, alla maniera ad esempio, del "1912 + 1" di Sciascia, può risultare non rigidamente ancorato all'attività decisoria finale svolta dal giudice ma comprensivo del riverbero processuale dei valori e dei "pregiudizi" a rigore esterni al processo.

A parte il dato, più che probabile nelle riletture fatte anni dopo un processo, della differenza del quadro normativo, nelle deposizioni dei testi, negli interrogatori degli imputati, nella discussione dei periti, e, qua e là, anche nell'intercalare di chi dirigeva il dibattito, ma, in particolar modo, nelle requisitorie e nelle arringhe," l’aria dei tempi" può essere anche particolarmente evidente.

Tuttavia, la rilettura presenta l'ostacolo, man mano che si va indietro nel tempo più difficile da superare, della conservazione non sicura degli atti processuali e, quasi, per necessità, e limitata alla rivisitazione dei processi “celebri” che possono, passando per la mediazione dei giornali e delle collane editoriali com'era, un tempo, quella di Corbaccio, essere consultati.

La curiosità di “come giudicavamo” o “venivamo giudicati” nella Roma umbertina, in questo mondo che parve ad alcuni contemporanei “nuovo” tale da assicurare “i comodi modesti dell'agiatezza lavoratrice”, soprattutto, negli edifici e a Matilde Serao, per converso, ”esecrazion degli occhi, esecrazion dell'anima", il processo, celebratosi dal 3 novembre 1897, nell'oratorio di San Filippo Neri, a carico di Giuseppe Pierantoni accusato dell'omicidio in danno della contessa di Lara (nom de plume di Evelyn Cattermole Mancini) può considerarsi indubbiamente “esemplare”.

Anzitutto, la protagonista, la morta, non il vivo, poetessa e scrittrice, amica, anzi, di più, di Mario Rapisardi, di Cesareo e moglie separata del terzogenito di Pasquale Stanislao Mancini.

Il "sangue", russo da parte di madre, scozzese da parte paterna, dunque, nel linguaggio del tempo, bollente di “commisti istinti”, con quel "naturale" bisogno d'avventura, ma anche il sangue versato dal marito nel duello con l'amante della moglie, rimasto ucciso a Firenze.

Lo pseudonimo contessa di Lara di byroniana memoria e lo pseudonimo dell'ambiente della maggior parte dei testimoni, da “Febea“ a “Richel” e la Carmen, il "chi ama fa così” che, per la verità, nella rilettura delle testimonianze, pare più espediente per evitare l'insistenza dell'assassino che l’identificazione del ruolo.

E, poi, ancora, il contrasto tra la poetessa dalla squisita sensibilità morale, la vivissima intelligenza, la nobiltà d'animo e la bontà di cuore.

Un inno al bene e all'amore... “tutta la vita” e la “mediocrità dell'ingegno” “la volgarità dei sentimenti“ dell'imputato, nella prospettazione del teste, marchese Monaldi.

Segno dei tempi, la parola d'onore data, epperò, senza richiesta alla Corte, da un ufficiale per smentire una lettera a sua firma che era stata, nella versione dell'imputato, prova di un rapporto d’amore.

“Vi avverto”, dice ad un certo punto, il Presidente, che “quanto dite é smentito dagli atti”, un'avvertenza inconcepibile nel nostro tempo ma allora spiccata preferenza allo "scritto" dei verbali istruttori.

Datata pure la trasformazione dell'aula in luogo di scontro dei campioni dell'eloquenza, l'accusatore "implacabile", Pio Cavalli, l'usignolo, Pietro Rosano e, alla difesa, Salvatore Barzilai. Un battersi per il "movente" che, nelle parole della morente, era la brama di denaro dell'ex suo convivente e, nella prospettazione "in subordine" della difesa dell'imputato, era lo stato d'ira, lo scatto della gelosia per lo stornamento delle attenzioni della "donna amata". Una "provocazione", come, a osservare dall'attuale punto di vista, possa essere considerato "fatto ingiusto" la libera determinazione del partner di troncare un rapporto, l'uso di questa libertà.

E proprio nel quarto dei sei "quesiti" proposti dal Presidente alla Giuria, questa "provocazione" prende posto ".... l'accusato Pierantoni Giuseppe commise il fatto... nell'impeto d'ira o di intenso dolore determinato da ingiusta provocazione?".

I dubbi dei giurati furono chiariti in quarantacinque minuti e il verdetto fu quello che sì l'imputato aveva agito "in stato d'ira o d'intenso dolore".

Conformemente alle richieste del Procuratore Generale, la pena fu quella di anni undici e mesi otto di reclusione.

Va detto che, dopo il processo, ci fu una sottoscrizione per raccogliere i fondi per una tomba in favore della vittima dell'omicidio e ci furono anche processi civili per l'eredità di una rendita lasciata dalla contessa di Lara all'ufficiale di marina del quale si era innamorata ma la sottoscrizione non si seppe come e dove fosse finita e le cartelle della rendita non furono mai più trovate.

«Le rose che de' suoi baci hanno odore / Non mi bastano più: lui solo io voglio.»
(Contessa Lara, Nuovi versi, 1894)