Il ponte di Melina
Una storia paesana romanzata
Maria nacque la notte di S. Lorenzo, in un
paesino del Sud snervato dallo scirocco e dalla miseria.
Antonio, suo padre, lavorava un podere a
mezzadria, possedeva una mandria di pecore e la domenica, vestito a festa,
scendeva al mercato per vendere i prodotti dell'orto e qualche
"pezza" di cacio.
Basso, di corporatura tozza, capelli radi
nero corvino, faccia smunta ed occhi spenti, dall'incedere sghembo, ciondolante,
dotato di una forza animalesca.
Nei giorni della festa della Patrona, si
esibiva in piazza alzando da terra un asino con le zampe legate da robuste
corde. E dopo che la bestia ragliando di disappunto era stata sollevata tra le
urla degli astanti accaldati, Antonio guardando la moglie Melina urlava
paonazzo: "nessuno è più forte di me, io batto tutti, attenta a quello che
fai".
A notte fonda, dopo aver gozzovigliato
intorno ai falò ritornava al buio verso la contrada seguito da Melina, che a
testa basta ripeteva gli stessi passi del taciturno consorte. Con occhi di
gatto, Antonio, anche senza luna, riconosceva i sentieri che si inerpicavano
nervosi dalla provinciale.
In prossimità delle prime case iniziava a
cantare a gola aperta. Un canto ostentato e stonato, come se volesse
partecipare ai dormienti una felicità falsa e rumorosa.
In paese, però, da tempo, il
chiacchiericcio alle spalle era iniziato.
"Sono cinque anni che è sposato e,
ancora, niente figli".
Lo sberleffo passava di bocca
amplificandosi "non ha fatto il soldato, non è buono per il re e neanche
per la regina".
Melina era, invece, un fiore di ragazza.
Alta una spanna più di Antonio, possedeva
un’eleganza innata, rara in una contadina vissuta a piedi scalzi tra gli orti
di melanzane e le galline.
Aveva la pelle bianca punteggiata da
efelidi, occhi celesti pastello, capelli castani, un seno generoso, due fianchi
disegnati da mano maestra, gambe sottili e nervose.
La sentivano spesso cantare nei boschi di
querce; il suo carattere era mite quasi proclive alla malinconia.
Insomma, come spesso accade, la più bella
del paese aveva, un bel giorno deciso di sposare, un mezzo sgorbio, rustico e
scontroso.
Per via della mandria, si disse, e per una
casa in paese che alla morte del padre, sarebbe toccata ad Antonio.
Dopo un fidanzamento brevissimo e casto,
le nozze sull'aia; il pranzo nella madia del pane.
Pasta corta con ragù di capra, crespelle
fritte all'aperto in grandi padelle ramate, vino e balli fino al sorgere del
sole.
Dopo la mezzanotte, Antonio, accaldato
dalle libagioni e dal primo eccitante contatto con Melina, l'aveva trascinata
quasi di peso nella misera casetta bianca, protetta da un austero castagno
frondoso e da una fitta siepe di ginestre e di rovi.
E mentre la fisarmonica accompagnata dalla
chitarra battente biascicava lenta l‘ultima ballata, l‘aveva presa rudemente,
ancora in abito da sposa, senza poesia, smanioso per la lunga, inesausta febbre
di desiderio.
Melina avvertì il brancicare scomposto
dell'uomo sul suo corpo, la sua lascivia untuosa, i peli della barba che le
irritavano la guancia, la puzza del vino ed un grugnito quasi animalesco a
suggello della fine.
Dopo poco lo sentì russare; pancia all'aria
e bocca aperta.
Udì le voci degli invitati che alticci
sfollavano l'aia urlando ad Antonio battute oscene "Fatti onore, diceva
una voce, falle vedere che non sai alzare solo l'asino"!
Melina sorrise amaro rispondendo tra sé "è
più somaro lui che quella povera bestia"!
Si alzò dal letto e iniziò a slacciarsi il
corpetto bianco del vestito da sposa alla luce fioca del lume a petrolio.
In un pomeriggio livido e grigio la
tragedia.
Maria che aveva ormai nove anni vide dalla
finestra il padre arrancare scompostamente verso la casa, pallido come una
patata bollita, agitando le braccia per richiamare la sua attenzione.
Melina era morta, dopo un volo di dieci
metri, da un impervio ponte-acquedotto nei pressi del cimitero, trascinata, si
disse, dallo scarto improvviso e violento di un montone che teneva per la
cavezza.
L'indagine non aggiunse nulla di nuovo
alla voce popolare che si era sparsa per il paese, con la velocità di un
fulmine.
Dopo pochi giorni dalla morte della madre,
la vita di Maria cambiò.
Il padre taciturno e scontroso divenne,
improvvisamente, violento e feroce con lei.
A volte per un nonnulla, l'espressione
mutava disegnandogli sul viso un odio sanguigno brutale, che Maria osservava
sgomenta ed impaurita.
Il ronzio monotono della sua fanciullezza
era scandito, giorno dopo giorno, da lacrime disperate, da violenze
irragionevoli sopportate senza ribellione: uno sciagurato enigma della vita che
Maria non riusciva a capire!
Antonio aspettò che la figlia compisse 14
anni; una sera d’inverno, stordito dal vino e dalla fatica, la prese a
tradimento, nel fetore della stalla, riversa sul fieno umido, lambito
dall'urina delle bestie.
Per quattro lunghi anni non si seppe cosa
succedeva nella casa di Antonio.
Nessuno era riuscito a capire l'odio di
quell'uomo, impenetrabile e roccioso che controllava con impegno paranoico ogni
spostamento della figlia.
Maria non aveva amicizie, i giovani del
paese la guardavano ebbri di desiderio, ma non osavano avvicinarla, per paura
del padre.
Era bella Maria.
Bionda, senza le efelidi di Melina; rosea,
senza il nero corvino di Antonio.
Neanche negli occhi ricordava la madre; ma
parlava e si muoveva come lei.
I seni erano quelli di Melina; il
carattere, invece, uno strano miscuglio di affabilità e risolutezza altera; un’altalena
continua tra cordialità e freddezza spezzante.
Una sera d'estate, dopo aver apparecchiato
sulla tavola la cena, Maria udì il guaito lamentoso di Nigra, una vecchia cagna
bastarda che controllava il gregge, trascinando stancamente la pancia appesantita
dalle gravidanze.
Corse in direzione del cane ed arrivò
trafelata proprio nei pressi del dirupo dove, anni prima, era morta sua madre.
Antonio era riverso a terra, le orbite
degli occhi rivolte all'interno; la mano destra stretta sul petto all'altezza
del cuore, la bocca aperta ansimante, come se mordesse l'aria.
Maria lo guardò morire, senza pietà, quasi
con indifferenza, immobile, impietrita dallo spavento e dallo stupore.
Chiamò aiuto e qualcuno dalle case vicine
si mosse verso la sua voce.
Trasportarono Antonio ormai cadavere sul
letto di ferro nero, e mentre due uomini gli sfilavano la giacca di fustagno,
il portafoglio di pelle ruvida, lacero e sgualcito dal sudore, cadde a terra.
C'erano poche lire, la regia carta
d'identità, un'immagine sacra, un piccolo corno rosso ed una lettera ingiallita
e sciupata dagli anni.
Maria lesse e capì in un attimo la sua
vita e la morte della madre.
“Radicena, 14/02/1919
Melina, amore caro.
Domani mi mandano al Comando di Catania, quasi tre
giorni di treno in terza classe.
Ti scriverò di nuovo appena arrivo, tu rispondimi
subito e dammi notizie della tua gravidanza. Sono preoccupato, non ci dormo la
notte. Voglio che nostro figlio nasca sano e non accada nulla a te.
Riguardati amore mio, non andare dietro le bestie al
pascolo, come vorrebbe quello zotico di ........
Fra otto mesi, al mio ritorno, gli dirò tutto.
Voglio vivere sempre con te, non ho paura della sua
forza bruta.
La gente dirà quel che vuole, a me non importa nulla.
Devi essere certa del mio amore, nostro figlio che
abbiamo voluto, è la cosa più bella di questo mondo, penserà lui a tenerci
uniti per sempre.
Ora ti lascio, mi chiama il superiore, fra due ore si
parte.
A presto.
Tuo per sempre Nicola”
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