venerdì 2 dicembre 2016

L’avvocato Carmelo Serravalle da Jatrinoli

Una vera storia paesana romanzata


Alla fine dell’ottocento, ad ogni banchetto matrimoniale o per rendere il commiato a nobili paesani o fanciulle rapite nel fiore degli anni, oratore fisso era il dott. Carmelo Serravalle da Jatrinoli.
Al termine del discorso riscuoteva il plauso da tutti i presenti che lo esortavano a licenziarsi dal Regio Archivio di Stato di Reggio Calabria, per intraprendere la professione di avvocato, che avrebbe esercitato in maniera veramente brillante, essendo oratore nato.
Tali pressanti sollecitazioni erano sentite e costanti e tanto lo esaltarono finché un giorno presentò le dimissioni da impiegato del Regio Archivio di Stato di Reggio Calabria, senza godere di alcuna pensione.
L'inizio della sua attività di avvocato fu segnato da clamorosi successi e molte volte al termine di gravissimi processi per associazione per delinquere, i parenti degli imputati che erano stati assolti dalla giuria popolare, mercé la di lui efficace difesa, per esternare la propria riconoscenza, lo issavano in alto portandolo in trionfo nell'aula della Regia Corte di Assise d'Appello di Catanzaro.
Improvvisamente la sua stella cominciò a declinare.
I motivi erano da ricercarsi, nella riforma della Corte di Assise che portò all'abolizione della giuria popolare e nel fatto che egli basava la sua difesa solo sugli effetti dell'arte oratoria, mentre poco spazio destinava alla scienza giuridica, l'unica arma che riesce, se adoperata con abilità, a risolvere complicati casi giudiziari.
I suoi clienti, che nei primi anni della sua professione costituivano una nutrita schiera proveniente da tutta la piana di Palmi, cominciarono progressivamente ad assottigliarsi di numero, finché divennero occasionali, procurati a mezzo dei soliti mediatori che bazzicavano ogni mattina negli anfratti prospicienti il carcere di Radicena e di Cittanova.
Quando il suo declino professionale toccò il fondo, per sopravvivere fece ricorso all'aiuto dei colleghi, ai quali si rivolgeva chiedendo un caffè o poche lire.
A volte per pranzare aguzzava l'ingegno: si recava al ristorante annesso al locale Circolo dei nobili, consumava assieme alla sorella un lauto banchetto ed alla fine con voce stentoria diceva al cameriere: "per cortesia ponga la spesa sul conto di mio cugino l'Onorevole Filippo Accorinti dei Conti di Sperlalunga, consigliere della Deputazione Provinciale”.
Questi non disdicendo questa fasulla parentela, anzi, divertito della trovata geniale dell'avvocato Serravalle, pagava sempre di buona voglia.
D'altra parte il ricorso a tali banchetti a sbafo erano saltuari e distanziati fra loro.
Nell'avvocato Serravalle la virtù che spiccava era la carità.
Quando la sua professione era in auge, egli, che abitava in via Pozzo, in un palazzo che serbava le vestigia di un fasto principesco, andava a visitare quei poveri che vivevano in tuguri nei vicini vicoletti adiacenti per dare loro denaro e cibo.
Riservava però esclusivamente ai più vecchi fra i poveri, una tazza giornaliera di caffè che mesceva in una brocca.
Tutti i poveri da lui beneficati, gli si erano affezionati e lo ringraziavano con le lacrime agli occhi e gli baciavano la mano.
Quando la sua stella tramontò definitivamente, non volle venire meno al rituale del caffè a favore dei più vecchi.
Al fine di procurarsi il quantitativo necessario alla bisogna, chiedeva ai colleghi piccole somme onde continuare la sua opera caritatevole.
Sennonché le pressanti richieste che rivolgeva agli avvocati, mortificavano indubbiamente la dignità della professione forense, finché un giorno il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Palmi decise di assegnargli un vitalizio a condizione che egli non mettesse più piede nel palazzo di Giustizia.
Non mancò all'impegno assunto, ma continuò a dividere con i poveri i soldi dell'assegno mensile.
Il suo obolo sicuramente sarà stato accetto a Dio perché proveniva da un povero ed era destinato a creature più povere.

lunedì 31 ottobre 2016

Il ponte di Melina


Una storia paesana romanzata


Maria nacque la notte di S. Lorenzo, in un paesino del Sud snervato dallo scirocco e dalla miseria.
Antonio, suo padre, lavorava un podere a mezzadria, possedeva una mandria di pecore e la domenica, vestito a festa, scendeva al mercato per vendere i prodotti dell'orto e qualche "pezza" di cacio.
Basso, di corporatura tozza, capelli radi nero corvino, faccia smunta ed occhi spenti, dall'incedere sghembo, ciondolante, dotato di una forza animalesca.
Nei giorni della festa della Patrona, si esibiva in piazza alzando da terra un asino con le zampe legate da robuste corde. E dopo che la bestia ragliando di disappunto era stata sollevata tra le urla degli astanti accaldati, Antonio guardando la moglie Melina urlava paonazzo: "nessuno è più forte di me, io batto tutti, attenta a quello che fai".
A notte fonda, dopo aver gozzovigliato intorno ai falò ritornava al buio verso la contrada seguito da Melina, che a testa basta ripeteva gli stessi passi del taciturno consorte. Con occhi di gatto, Antonio, anche senza luna, riconosceva i sentieri che si inerpicavano nervosi dalla provinciale.
In prossimità delle prime case iniziava a cantare a gola aperta. Un canto ostentato e stonato, come se volesse partecipare ai dormienti una felicità falsa e rumorosa.
In paese, però, da tempo, il chiacchiericcio alle spalle era iniziato.
"Sono cinque anni che è sposato e, ancora, niente figli".
Lo sberleffo passava di bocca amplificandosi "non ha fatto il soldato, non è buono per il re e neanche per la regina".
Melina era, invece, un fiore di ragazza.
Alta una spanna più di Antonio, possedeva un’eleganza innata, rara in una contadina vissuta a piedi scalzi tra gli orti di melanzane e le galline.
Aveva la pelle bianca punteggiata da efelidi, occhi celesti pastello, capelli castani, un seno generoso, due fianchi disegnati da mano maestra, gambe sottili e nervose.
La sentivano spesso cantare nei boschi di querce; il suo carattere era mite quasi proclive alla malinconia.
Insomma, come spesso accade, la più bella del paese aveva, un bel giorno deciso di sposare, un mezzo sgorbio, rustico e scontroso.
Per via della mandria, si disse, e per una casa in paese che alla morte del padre, sarebbe toccata ad Antonio.
Dopo un fidanzamento brevissimo e casto, le nozze sull'aia; il pranzo nella madia del pane.
Pasta corta con ragù di capra, crespelle fritte all'aperto in grandi padelle ramate, vino e balli fino al sorgere del sole.
Dopo la mezzanotte, Antonio, accaldato dalle libagioni e dal primo eccitante contatto con Melina, l'aveva trascinata quasi di peso nella misera casetta bianca, protetta da un austero castagno frondoso e da una fitta siepe di ginestre e di rovi.
E mentre la fisarmonica accompagnata dalla chitarra battente biascicava lenta l‘ultima ballata, l‘aveva presa rudemente, ancora in abito da sposa, senza poesia, smanioso per la lunga, inesausta febbre di desiderio.
Melina avvertì il brancicare scomposto dell'uomo sul suo corpo, la sua lascivia untuosa, i peli della barba che le irritavano la guancia, la puzza del vino ed un grugnito quasi animalesco a suggello della fine.
Dopo poco lo sentì russare; pancia all'aria e bocca aperta.
Udì le voci degli invitati che alticci sfollavano l'aia urlando ad Antonio battute oscene "Fatti onore, diceva una voce, falle vedere che non sai alzare solo l'asino"!
Melina sorrise amaro rispondendo tra sé "è più somaro lui che quella povera bestia"!
Si alzò dal letto e iniziò a slacciarsi il corpetto bianco del vestito da sposa alla luce fioca del lume a petrolio.
In un pomeriggio livido e grigio la tragedia.
Maria che aveva ormai nove anni vide dalla finestra il padre arrancare scompostamente verso la casa, pallido come una patata bollita, agitando le braccia per richiamare la sua attenzione.
Melina era morta, dopo un volo di dieci metri, da un impervio ponte-acquedotto nei pressi del cimitero, trascinata, si disse, dallo scarto improvviso e violento di un montone che teneva per la cavezza.
L'indagine non aggiunse nulla di nuovo alla voce popolare che si era sparsa per il paese, con la velocità di un fulmine.
Dopo pochi giorni dalla morte della madre, la vita di Maria cambiò.
Il padre taciturno e scontroso divenne, improvvisamente, violento e feroce con lei.
A volte per un nonnulla, l'espressione mutava disegnandogli sul viso un odio sanguigno brutale, che Maria osservava sgomenta ed impaurita.
Il ronzio monotono della sua fanciullezza era scandito, giorno dopo giorno, da lacrime disperate, da violenze irragionevoli sopportate senza ribellione: uno sciagurato enigma della vita che Maria non riusciva a capire!
Antonio aspettò che la figlia compisse 14 anni; una sera d’inverno, stordito dal vino e dalla fatica, la prese a tradimento, nel fetore della stalla, riversa sul fieno umido, lambito dall'urina delle bestie.
Per quattro lunghi anni non si seppe cosa succedeva nella casa di Antonio.
Nessuno era riuscito a capire l'odio di quell'uomo, impenetrabile e roccioso che controllava con impegno paranoico ogni spostamento della figlia.
Maria non aveva amicizie, i giovani del paese la guardavano ebbri di desiderio, ma non osavano avvicinarla, per paura del padre.
Era bella Maria.
Bionda, senza le efelidi di Melina; rosea, senza il nero corvino di Antonio.
Neanche negli occhi ricordava la madre; ma parlava e si muoveva come lei.
I seni erano quelli di Melina; il carattere, invece, uno strano miscuglio di affabilità e risolutezza altera; un’altalena continua tra cordialità e freddezza spezzante.
Una sera d'estate, dopo aver apparecchiato sulla tavola la cena, Maria udì il guaito lamentoso di Nigra, una vecchia cagna bastarda che controllava il gregge, trascinando stancamente la pancia appesantita dalle gravidanze.
Corse in direzione del cane ed arrivò trafelata proprio nei pressi del dirupo dove, anni prima, era morta sua madre.
Antonio era riverso a terra, le orbite degli occhi rivolte all'interno; la mano destra stretta sul petto all'altezza del cuore, la bocca aperta ansimante, come se mordesse l'aria.
Maria lo guardò morire, senza pietà, quasi con indifferenza, immobile, impietrita dallo spavento e dallo stupore.
Chiamò aiuto e qualcuno dalle case vicine si mosse verso la sua voce.
Trasportarono Antonio ormai cadavere sul letto di ferro nero, e mentre due uomini gli sfilavano la giacca di fustagno, il portafoglio di pelle ruvida, lacero e sgualcito dal sudore, cadde a terra.
C'erano poche lire, la regia carta d'identità, un'immagine sacra, un piccolo corno rosso ed una lettera ingiallita e sciupata dagli anni.
Maria lesse e capì in un attimo la sua vita e la morte della madre.


“Radicena, 14/02/1919

Melina, amore caro.
Domani mi mandano al Comando di Catania, quasi tre giorni di treno in terza classe.
Ti scriverò di nuovo appena arrivo, tu rispondimi subito e dammi notizie della tua gravidanza. Sono preoccupato, non ci dormo la notte. Voglio che nostro figlio nasca sano e non accada nulla a te.
Riguardati amore mio, non andare dietro le bestie al pascolo, come vorrebbe quello zotico di ........
Fra otto mesi, al mio ritorno, gli dirò tutto.
Voglio vivere sempre con te, non ho paura della sua forza bruta.
La gente dirà quel che vuole, a me non importa nulla.
Devi essere certa del mio amore, nostro figlio che abbiamo voluto, è la cosa più bella di questo mondo, penserà lui a tenerci uniti per sempre.
Ora ti lascio, mi chiama il superiore, fra due ore si parte.
A presto.

Tuo per sempre Nicola”

lunedì 11 luglio 2016

La patria degli imbecilli.


Riflessioni sulla imbecillità umana, come riconoscerla per superarla


La patria degli imbecilli.
Questo fraseggio è un eufemismo per asserire che gli imbecilli sono anch'essi cittadini del mondo.
Per intenderci sono di una razza diversa e diversificata, pur presentandosi come esseri dotati di facoltà intellettiva, di pseudocultura, di verve, addirittura di apparente personalità, insomma capaci come gli estinti australopitechi di comunicare, di farsi ascoltare dagli ascari decerebrati plaudenti, di imporre il loro inesistente punto di vista; sotto le camuffate spoglie di affabulatori programmati o di sporadici improvvisatori, te li potresti malauguratamente trovare accanto in ogni dove, in ogni stagione, in ogni commemorazione, solennità o festa.
E li puoi identificare addirittura su scranni municipali, su giornali o riviste con il demerito di appartenere alle classi che sono all'avanguardia tribale della più dequalificata “intellighentia” politico-affaristico-mafiosa; mentre il vulgo fazioso dei lacchè, ignorante ed incapace è l’unico ad essere svincolato dalla tirannica trappola rischiosa della imbecillità umana.
Qualsivoglia irresponsabile imbecille, si manifesta sui conosciuti social media con contenuti di odio pensando di proteggersi dentro sacche di effettiva impunità o salvacondotti nei quali la responsabilità rimbalza fra l’autore, la piattaforma stessa e i gestori della pagina sulla quale scrive.
L’immenso Gustavo Flaubert trascorse tutta la vita a tenersi lontano dagli imbecilli!
Basta leggere il suo pamphlet “Schiocchezzaio” per riscontrare quanto ne abbia dette di cotte e di crude sui comportamenti e le sottostrutture mentali che caratterizzano le fondamenta ancestrali degli imbecilli.
Venticinque secoli fa Eschilo si è immortalato, tra l’altro, per questo suo insuperabile pensiero: “Contro la imbecillità degli uomini anche gli Dei lottano invano”; mentre in epoca successiva Leo Longanesi ha irresistibilmente coniato questo insuperabile colpo di cannone: “La madre degli imbecilli è sempre incinta!”
In tempi più recenti un folle giullare istrionico quale Roberto Benigni ha rideterminato l’adagio asserendo che “Se la madre degli imbecilli è sempre incinta, la madre dei figli di puttana è sempre vergine”!
Ma il riferimento geografico o nazionalistico degli imbecilli è individuabile dappertutto, dal momento che le loro imprevedibili coordinate non sono allineate ad alcun sistema orografico, lacustre, fluviale, marittimo od oceanico, hanno da lustri valicato i confini della Beozia, ove erano storicamente limitati e circoscritti nelle loro cromosomiche coordinate.
Questi esseri subumani, che detengono il primato dell’insulto delatorio alla intelligenza, sono veramente imbattibili soprattutto nelle fantastiche ricostruzioni mendaci di fatti ed avvenimenti surreali, interpretabili e fomentate da quell'inetto substrato corticale che costituisce la loro corteccia cerebrale idiotizzata nei meccanismi mentali cognitivi complessi come il pensiero, la coscienza, il linguaggio e soprattutto la memoria.

Preferisco i malvagi agli imbecilli: quelli almeno si riposano. (Alexandre Dumas figlio)

mercoledì 13 aprile 2016

L’origine delle sette segrete Taurianovesi
Brevi cenni storico-giuridici sulle locali sette segrete


La cospirazione politico-religiosa
            Secondo la felice caratterizzazione di un autore francese(1) l’iter progressivo di tutela della sicurezza dello Stato (rectius: comunità) può snodarsi attraverso diverse fasi costitutive, rispettivamente, in primo luogo, dall’incriminazione di commettere un delitto contro lo Stato; in secondo luogo, dall’incriminazione della proposta fatta e non accettata di commettere tale delitto; in terzo luogo, dalla punizione del complotto (o cospirazione); in quarto luogo, dalla punizione del complotto seguito da atti preparatori dei delitti in questione.
            Il legislatore francese, nella codificazione Napoleonica, aveva recepito il sistema della seconda fase, il quale sanzionava, sia pure con pene correzionali, la semplice proposta non accolta di commettere un delitto contro lo Stato.
            Un esempio analogo poteva riscontrarsi nell’art.14 dell’editto sulla stampa il quale incriminava, a titolo speciale, la provocazione a commettere il delitto di cospirazione contro la persona del Re o contro individui della famiglia reale (codice penale albertino del 1839), incriminazione che venne implicitamente abrogata dal codice penale del 1930.
            Si può quindi, senza tema di smentita, osservare come per più di un secolo si è considerato reato perseguibile penalmente, la semplice provocazione a commettere il delitto di cospirazione contro i Regnanti (rectius: governanti) ed il Clero.
Il caso Jatrinoli
            Connotato preminente della cospirazione politica è la segretezza sia della risoluzione di agire sia del suo iter di sviluppo, a questa constatazione tendenziale conduce il significato volgare della locuzione “cospirazione” (quale sinonimo di congiura), nonché l’esame delle forme in cui essa si è storicamente realizzata.
            Limitando il nostro campo di azione temporalmente alla fine del 1800 e senza esaminare i successivi risvolti legislativi, possiamo provare documentalmente a Jatrinoli (ora Taurianova) l’esistenza di raggruppamenti di persone, unite da comunanze ideologiche e politiche che successivamente all’Unità d’Italia professarono una radicale, intransigente e talvolta esplicita contrapposizione alla comunità e all’ideologia sabauda e religiosa dominante.
            La fonte documentale che pubblicamente assevera l’esistenza di queste sette segrete, è un "manifesto denuncia" siglato da un'eterogenea moltitudine di cittadini Jatrinolesi e datato agosto 1897.(2)
            I fatti denunciati nel manifesto risalivano al 1882 circa, quando una fantomatica “setta dei libellisti” che al suo primo apparire prese il nome di Notte Oscura “si scagliò contro le persone più distinte del paese, le quali, pur conoscendone gli autori, sotto il velame dell’anonimo, onde si nascondevano, stimarono dignitoso e conveniente di non dare altra risposta che il disprezzo”.
            Successivamente e cioè verso il 1884, quando Jatrinoli si divise in partiti, i libellisti si posero all’opera in misura sfrenata, con ricorsi alle autorità civili ed ecclesiastiche, con articoli di giornale, con fogli volanti, e talvolta con cartelle denigratorie appese alle mura cittadine, conservando sempre scrupolosamente l’anonimato.
            I libellisti presero di mira, attaccandoli inopinatamente, i “Tiranni Signorotti” ed una parte importante del clero, costituita dall’Arciprete del Duomo di Jatrinoli Francesco Maria De Luca, al quale non si perdonava un comportamento alquanto dispotico ed un esplicito parteggiare alle cruente lotte politiche ed amministrative.
            Tale profonda avversione religiosa dimostrata dai libellisti della “Notte Oscura” non determinò da parte delle autorità religiose preposte, in una società prevalentemente confessionale, l’applicazione del canone 2335 del diritto canonico, giacché lo stesso afferiva maggiormente alle ipotesi delittuose commesse da membri della Massoneria, la quale a Jatrinoli non era radicata, sviluppata e potente come nel vicino contado di Radicena, (conurbate nel 1928 nell’attuale Taurianova), dove sin dal 1812 il verbo della Massoneria speculativa o moderna, fondata a Londra il 24 giugno 1717, operava attraverso la storica Loggia degli Bruzj Riuniti.
La setta della “Notte Oscura”
            L’operato della setta dei libellisti è documentato inequivocabilmente in un foglio di carta pesante finemente stilato sia sul recto sia sul verso, più di un secolo fa, dai margini consunti, ma chiaramente leggibile(3).
            In tale foglio è tracciato il verbale di riunione datato 18 febbraio 1884 del “Consiglio de’ Dieci”, nell’ultima seduta della sessione invernale, scaturita dall’invito pregresso del 06 gennaio 1884 e letto dall’Egregio Bastone ed un successivo discorso tenuto dall’onorevole Fra Totamo.
            Si legge, altresì, sul rogato verbale,  “Propugnandum inquisitores est”, che oltre a  costituire il motto della setta dei libellisti, era la  formula di giuramento sacramentale ed iniziatica cui si sottoponevano i nuovi segreti adepti.
            Sul frontespizio del documento si scorge, ancora, nella sezione superiore del foglio il simbolo araldico , costituito da una “arma coronata, con croce di malta sulla parte inferiore e lance a contorno”, con l’incastonata e laconica iscrizione “Povera Patria!” e seguendo nella porzione centrale un carme burlesco, intitolato “I Liquori pel Carnevale”che vale la pena di riportare testualmente, non fosse altro per la saccente ironia che ne trasuda.
            Il testo satirico del componimento è il seguente:
Offriamo con affetto/Con amore e grandiletto/Di buonissimi liquori/Un regalo à traditori:/E’ dè Dieci il Comitato/A costoro troppo grato./Nostravoglia appieno sia/Che un bicchier di Malvasia/Beva e gusti il mio Girone,/Mentr’è birbo lanzarone/didiscerne a prima vista/Com’è Capo Camorrista!!!/La Sciampagna è grato vino/Perciò s’offre a Vincenzino/Con affetto e con amore,/Mentr’è degn’inquisitore:/Fra cotanta Tirannia/Proclamò la Camorria…/A’ seguaci dè Tiranni/Offriamo dè malanni,/Ed un dono degno e caro/A quel brutto di magaro;/D’un buonissimo liquore/Un bicchiere al seduttore./Agli onesti Cittadini/Offriamo i veri vini/Acquistati col sudore/Del più puro onore;/Mentre’l fu acquistato/Con lavoro svergognato!!!//.
            Sorprende come in un contado arretrato e lontano dai clamori della cultura mitteleuropea nascente, si è potuta affermare una classe di intellettuali illuminata come gli affiliati alla “Notte Oscura”, i quali dal linguaggio letterariamente forbito e dai temi politici trattati, dimostravano un'adamantina valenza risorgimentale che faceva da controcanto alla ignavia lapidare, alla sciatteria ed all'ignoranza pullulante in cui stagnava la Calabria tutta.
            I duri attacchi della setta della “Notte Oscura”, che tramutarono successivamente il nomen in “In Congresso delle talpe”(4), sconvolsero per più di un decennio circa la quieta vita rurale del contado Jatrinolese, e ciò si è potuto evidenziare dalla cospicua documentazione reperita ed afferente ad anonimi libelli sotto forma di manifesti, di brossure, di sarcastiche pièce, e naturalmente da verbali di riunione.
            A quali azioni e mezzi atti a conseguire la delazione inquisitoria e delegittimante si siano dedicati, negli anni a seguire, i cospiratori per fustigare il ceto nobiliare dominante ed il clero locale, nulla c'è dato sapere, ma chiara è emersa dalle fonti, attraverso la costituzione di un pactum sceleris la volontà degli adepti della “Notte Oscura” di perseguitare la “vile canaglia dè Tirannotti” considerati “Capi dell’orrenda Camorra” e delle “spie che giornalmente vanno ammantando” attraverso “le più atroci torture” per il raggiungimento dello scopo fondante costituito dalla “salvezza della Patria istessa”.

Note.
(1)   Garraud, Traité théorique ed pratique du droit pénal français, Paris, 1916, 305;
(2)   Manifesto di denuncia, Palmi, Tip.Lopresti,1897;
(3)   Libello della setta Notte Oscura datato 18/02/1884;
(4)   Libretto del Congresso delle talpe datato 1898.

giovedì 7 aprile 2016

Storia di un Regio commissariamento

Radicena, Jatrinoli e San Martino sul finire dell’‘800





Premessa

Un elemento di ricerca esegetica particolarmente importante e conducente per l’analisi delle condizioni economiche e sociali nei comuni di Radicena, Jatrinoli e San Martino alla fine del 1800 è costituito dalla “Relazionedel Regio Commissario Straordinario Prof. Luigi Veneziani.
Essa afferisce al Comune di Jatrinoli con l’annessa frazione di San Martino, ed è estensibile de relato all’antica contrada di Radicena, insieme conurbate con Regia Decretazione Governativa vistata dal Guardasigilli Rocco in data 16 febbraio 1928, nr.377.
La “Relazionedatata 05 giugno 1899, indirizzata ai consiglieri comunali, costituiva l’atto conclusivo dell’attività amministrativa iniziata con Decreto Reale del 28 novembre 1898, dopo lo scioglimento, per inettitudine amministrativa, del consesso municipale Jatrinolese.
La caratterizzazione preminente, riguarda non solo l’aspetto prettamente amministrativo che la pervade, ma, altresì, si connota com’elemento conducente per l’esame delle condizioni sanitarie, di pubblica sicurezza, istruzione, cimiteriale, sociale ed altro ancora.
Si viene a determinare così uno spaccato, minuzioso ed elaborato di vita cittadina, collimante con la fine dell’ottocento ed i primordi del XIX secolo.

Pubblica sicurezza

La condizione di Pubblica Sicurezza sul territorio e nel paese in genere era assai compromessa, tant’è che il Regio Commissario dovette portare a conoscenza con deliberazione indirizzata al Prefetto il 06 gennaio 1899, le gravi ed allarmanti situazioni di microcriminalità diffusa nel territorio, insistendo sulla necessità di trasformare la Stazione dei Regi Carabinieri di Radicena in Sezione, ed eventualmente costituirne ex novo una Stazione nella frazione di San Martino.
A tale risoluzione fecero adesione i viciniori comuni di Radicena, Molochio e Terranova Sappominulio.
L’allarme criminalità, evocato dal zelante Commissario Veneziani si concretizzò, con la provvisoria soppressione dei giuochi nei pubblici servizi, oltre al rigido controllo e sorveglianza alle cosiddette persone ammonite e pregiudicate, nonché alla contestuale supervisione delle feste del Santo Natale, del Capodanno e del Carnevale, durante le quali, in passato, accaddero i più efferati delitti.

Igiene e polizia urbana

Vero punctum dolens erano le condizioni di polizia urbana e soprattutto quelle dell’igiene pubblica, per i quali lo stesso Veneziani affermava, quasi sconsolato, che trattasi d'elementi per i quali l’osservanza delle disposizioni di legge e dei regolamenti comunali da parte della popolazione, richiederà certamente “il trascorrere di molti lustri”.
L’invettiva dell’amministratore si rivolgeva ai “miseri pecorai”, proprietari di ovili al centro del paese, fomite di miasmi pestiferi e causa di non poche malattie, a cagione dei quali in data 08 gennaio 1899 se ne dispose con ordinanza municipale la soppressione.
Senza trascurare nemmeno, i proprietari dei palazzi antistanti, le vie di pubblico accesso, avvezzi, al sorgere del sole, a svuotare i pitali ed altro dagli escrementi notturni e/o mattinieri, molto spesso a “concime delle teste passanti”, e per finire alle due tintorie ed alla saponeria esistenti, i cui titolari erano anch’essi abituati a scaricare i pericolosi liquami di risulta nelle prossimità dei centri abitati.

Strade comunali e vicinali

Il primo rilievo, scaturente da un esame ben ponderato, portò il Regio Commissario Veneziani a constatare l’assoluto degrado ed abbandono sussistente nelle strade cittadine, sia interne sia esterne.
Pertanto, l’opera di sistemazione, mediante spargimento di brecciame interessò i ¾ circa del manto stradale e specificatamente riguardò le seguenti strade: “Strada Lucchese, tratto di fronte ai giardini dei Signori Contestabile e Scordo, Via Storta, Via Storta che va al Cantarello, Via Cantarello che va alle fonde Santa Luci, Via San Giuseppe, Via Colomonaco che va al fondo Salazare, Via scesa di Celano, Via Santa Lucia che n’esce alla Pignara”,rimanendo alla fine del 1899 da risistemare: “Via Trodio, Via Paparatto, Via del Carmine che conduce al Vallone della masseria Cavatore”.

Acque

In merito alle acque la situazione alla fine del 1800, se da un lato appariva ottima grazie anche all’abbondanza delle fonti che costituiva, a detta dell’amministratore straordinario, una “ricchezza pel Comune”, dall’altra, appariva problematica a causa delle numerose vertenze legali riguardanti la cessione della stessa a privati.
Tanto è vero, che nel commiato del 5 giugno 1899, raccomandava ai consiglieri e futuri amministratori, di porre canali di misura, anche per le acque da tempo vendute o cedute ai privati onde evitare esorbitanti sprechi, come ciò, peraltro, avveniva per la monumentale fontana di Piazza Vittorio Emanuele venduta a privati con atto rogato dal Notar Campannì in data 30 maggio 1865.

Servizio Sanitario

L’attenzione del saggio amministratore, in merito alle condizioni sanitarie, si accentrò precipuamente al servizio d’ostetricia, nel quale si era venuta a determinare una parossistica situazione d'incompatibilità economica tra l’ostetrica condotta e le altre due all'uopo abilitate.
Difatti, mentre alla prima era corrisposto uno stipendio annuo, ammontante a lire 550 (ai medici condotti si dava un emolumento annuale di lire 650), alle seconde non era corrisposto alcun compenso.
La soluzione della querelle avvenne con una salomonica decisione da parte del Regio Commissario Rag. Veneziani Luigi, il quale pensò di riordinare il servizio, togliendo all’ostetrica condotta l'occupazione di San Martino destinandovi contemporaneamente una delle ostetriche autorizzate, ed affidando all’altra il servizio del paese, in aiuto alla condotta, il tutto con decorrenza dal 1° gennaio 1900.

Cimiteri

Il servizio mortuario, secondo la relazione commissariale, si svolgeva con indefesso ed imperituro lavoro del custode e direttore, Giuseppe Scordo, che dal 1871, valeva a dire da 28 anni serviva il Comune, coadiuvato da due seppellitori.
Determinò immane meraviglia, al "nordico" Commissario l’abbandono che nel paese si faceva delle salme appartenenti alle classi povere, condotte via senza alcune cerimonie religiose e soventemente inumate senza casse.
All’uopo, si dispose un capitolo di bilancio ad hoc, con effetto dal 1900, affinché sorgessero anche in queste contrade “sentimenti generosi e pietosi”.
Sempre per questo sentimento misericordioso il Veneziani rivolse la cura e l’attenzione al vecchio Cimitero, inaugurato nel 1848 nell’agro catastalmente denominato Cardona, abbandonato sin dal 1883 e versante in condizioni penose, attraverso il continuo taglio dell’erba, delle spine (che peraltro si eseguiva nell’agosto d'ogni anno) e l’innalzamento di un’alta croce, adorna d'edera e fiori.

Pubblica istruzione

Per la pubblica istruzione, importanti innovazioni s'intrapresero dal solerte commissario attraverso la definitiva costruzione dell’edificio scolastico e successivo collaudo, comportante l’inaugurazione ed il consequenziale inizio del nuovo anno scolastico 1899-1900.
Si provvide, altresì, all’applicazione definitiva, nel novello sito, degli insegnanti Mallamo Maddalena, Gagliardi Erminia e il maestro Monteleone.
Non si può negligere, altresì, la disposizione con la quale si venne a sopprimere nel Comune di Jatrinoli, per ragioni d’economia, la classe 4ª e 5ª maschile della Scuola facoltativa, grazie all’opportunità concessa dal Comune di Radicena di far frequentare, “ai pochi giovinetti che intendessero proseguire gli studi”, le classi superiori.
Tale disposizione, riveste particolare importanza, in quanto per la prima volta è intercalato, in un atto deliberativo ufficiale, il ragionevole proponimento da parte di un funzionario ministeriale, qual era il Regio Commissario Veneziani, sulla necessità di riunire i due separati municipi sotto l’egida di un comune stendardo municipale, laddove rimarca come“fra l’uno e lo altro paese si può dire non esiste distanza”.

Frazione San Martino

L’abbandono in cui era caduto il borgo di San Martino, allora ammontante a 900-1000 anime circa, fu uno dei preminenti motivi che provocarono lo scioglimento del Consiglio comunale di Jatrinoli.
Il Commissario con l’aiuto del delegato dal Sindaco, Maiorca Giuseppe, riordinò tutti i servizi da tempo abbandonati e specialmente quello della illuminazione ad olio, di polizia urbana e d’igiene, nonché curò il restauro di alcune strade principali.
L'opera, reputata dall’amministratore più importante e ad ogni modo compiuta, nonostante una dura opposizione campanilistica, fu la ricostruzione della Chiesa Parrocchiale, essendo il culto da anni esercitato in una “meschina baracca di legno”.
La stessa fu inaugurata alla fine del 1899.

Conclusioni


Dulcis in fundo, da uno stralcio conclusivo della relazione del Regio Commissario Rag. Luigi Veneziani, da riportare testualmente, emerge lapalissianamente l’immanente attualità della stessa, per la ferina rampogna rifilata ad una genia di retrivi politicanti, ammonendo catastroficamente le future generazioni come “i partiti costituiscono sempre la più grave sventura dei paesi, essi distruggono rapporti di amicizia e di scambievole fiducia, distruggono la vita del paese, portano la pubblica demoralizzazione, distruggono infine ogni ideale d’equità, rettitudine e giustizia” ed augurando, alle porte del nuovo secolo al paese“quell’amministrazione retta, pacifica ed onesta inspirata solamente all’interesse e bene di tutti”.

sabato 20 febbraio 2016

Josef K.

Riflessioni sulla inviolabilità della libertà personale

La tutela della libertà personale, costituisce il principio cardine dei sistemi costituzionali più evoluti contro la barbarie degli arresti arbitrari.
Essa si pone come una “condicio sine qua non” basica di ordine costituzionale rispetto alle eterogenee prerogative individuali sancite e previste da varie leggi fondamentali.
Le diverse realtà giuridiche invero differenziano l’enunciato formale del principio consolidato, modificandolo e reinterpretandolo molto liberamente nell’evidenza della prassi quotidiana.
La spada di Damocle che lambisce l’esistenza dei governati, determina un minus esistenziale, ove la minaccia del pericolo della privazione ingiustificata della propria libertà venisse esercitata senza la parsimonia necessaria.
Certo alle fonti di grado costituzionale interno, si allineano in una visione ecumenica le convenzioni internazionali onde prevenire ed evitare nefasti accadimenti nelle singole realtà, ma molti stridenti privazioni contraddicendo disposizioni illuminate di ordinamenti liberali e garantisti, fanno rivivere in realistici cliché il tragico destino di Josef K., protagonista dell’onirico e paradossalmente spettrale romanzo Il Processo del geniale Franz Kafka.
La Carta costituzionale sabauda all’art. 26 dettava: “Niuno può essere arrestato o tradotto in giudizio se non nei casi e nelle forme previste dalla legge”; l’uso della congiunzione disgiuntiva “o” induceva ad interpretare la facoltà dei gendarmi di arrestare indipendentemente dalla traduzione in giudizio.
La Costituzione Italiana all’art.13, per converso, definendo inviolabile la libertà personale, ne sancisce l’irrinunciabile centralità giuridica, morale e storica.
Ma la nostra Costituzione è pur sempre figlia illegittima della Roma repubblicana, infatti intorno al 500 a.c. due istituti romani hanno regolamentato i presupposti fondanti la privazione della libertà personale: la prima “Lex Valeria de provocatione” imponeva l’intervento del popolo prima della esecuzione di sanzioni gravi; la seconda “Intercessio tribunicia” facultava i tribuni della plebe di porre, con efficacia sospensiva immediata, il veto contro provvedimenti restrittivi della libertà personale viziati da apparente abuso.
In Inghilterra l’avanzato sistema di tutela della libertà personale paradossalmente si fonda e si sostanzia nella “Magna Charta Libertatum” del 1215 integrata dall’”Habeas corpus”, in base al quale il trattenuto può chiedere dopo la carcerazione, l’immediata traduzione davanti al suo giudice naturale onde essere edotto della causa dell’arresto.
Negli Stati Uniti D’America il “Bill of Rights” sancito nella Costituzione del 1789 prevede al quinto emendamento la tutela di ogni persona contro la privazione della vita, della libertà o dei beni al di fuori di un’apposita pronuncia giurisdizionale.
Gli odierni crimini, soprattutto quelli internazionali, spingono l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, memore del tragico fallimento della Società delle Nazioni resasi quasi compartecipe delle sataniche efferatezze perpetrate dai nazisti, a salvaguardare concretamente la vita, la sicurezza e la dignità delle persone, per una garanzia di conservazione dei beni inviolabili e per un futuro impegno di affermazione della libertà e di esaltazione delle potenzialità umane.

“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K, poiché senza che avesse compiuto alcunché di male, in un grigio e triste mattino invernale, venne arrestato.” (Franz Kafka, Il Processo, 1925)

lunedì 4 gennaio 2016

Ordine medievale


Riflessioni sulla privazione della libertà collettiva e lo strapotere dello Stato


Il concetto di ordine pubblico è alquanto difficile da fissare entro limiti storicamente temporali entro i quali poter procedere ad un’analisi di forme e contenuti.
Il termine stesso è di difficile catalogazione, peraltro, avversata dalle scienze giuridiche, politiche e sociali sulla valenza, efficacia ed operatività di un comparabile concetto.
Uno Stato repressivo celato sotto le mentite spoglie di uno Stato democratico, penetra preventivamente e regressivamente nel sistema delle libertà dei cittadini, delegittimando ogni forma di opposizione e di dissenso.
Lo Stato da momento ordinatore di aggregati politici e sociali diviene disciplina ferrea della vita dei cittadini, attraverso una silente imposizione dogmatica obnubilante l’anencefalica, sottomessa e sublimante acquisizione di mendaci messaggi, pilotati da una claque giornalistica pronta a manifestazioni di servile ossequio e prezzolata da un regime di privilegi.
Il pluralismo sociale e politico, la tolleranza religiosa, il riconoscimento e la tutela delle minoranze etniche e linguistiche, sono i connotati fondamentali di uno Stato che ben difficilmente nella sua dinamica democratica è riuscito a ritrovare un ordine pubblico ideale al quale ispirarsi.
L’emergere tumultuoso e incessante di nuove forze sociali, di gruppi, movimenti, partiti politici ed associazioni ha messo in discussione qualsiasi dottrina e ideologia, forgiando un grado di disordine sociale che viene accettato come necessario effetto di un sistema disfunzionalmente aperto.
La democrazia difficilmente potrà raggiungere e detenere una posizione estremamente fluida o filosoficamente liquida secondo la metafora coniata da Zygmunt Bauman.
Al di sopra di una visione politica dominante e della statica del potere, si avverte sempre più la necessità che, almeno sotto l’aspetto formale, i metodi, le procedure e le strutture processuali, debbano essere espressione convergente di un comune consenso.
Solo così operando ci sarà spazio per un ordine pubblico ideale, costituito dal criterio democratico, dal ragionevole mutamento, dal rifiuto dell’eversione e della sovversione cruente, dalla messa al bando di incancrenenti fenomeni sociali patologici.
Il dibattito filosofico, giuridico e politico sul tema è ancora aperto, screditato da inani pregiudizi politici e culturali che ancora risentono di esperienze autoritarie e di nefasti governi di cialtroni.
L’opera di snaturalizzazione perpetrata da uno Stato di diritto e democratico, apre la querelle sul valore cogente della nozione di ordine pubblico, osteggiato, estromesso e caducato di alcuna efficacia positiva e normativa, e collocato dai detrattori sugli scaffali museali dell’archeologia giuridica, attraverso il mutamento nominativo con oppiacee espressioni tranquillizzanti quali ordine costituzionale, ordine democratico, ordine amministrativo, ordine giuridico e dulcis in fundo ordine politico!

“Ordine vuol dire la cosa giusta al posto giusto e al momento giusto.” (Zygmunt Bauman, su Corriere della Sera, 2009)