venerdì 24 luglio 2015

De profundis…Italia


Riflessioni sulla incapacità dei politici e sulla sordità del popolo



Oggigiorno stiamo assistendo, con drammatica evidenza, ad un vasto e profondo sfasamento dei valori fondamentali con contemporaneo sovvertimento dei più elementari precetti del vivere civile.
Anche a non essere patiti di notiziari, come lo scrivente, si è bersagliati e feriti dalle notizie dei più efferati delitti, con dovizia di particolari scenici ed immagini agghiaccianti contravvenenti le prescrizioni più elementari non solo del vivere normato ma tracimanti dall’etica più elementare del convivere civile.
Stragi, omicidi, sequestri dei persona, corruzione, estorsioni, rapine, traffico di droga, violenze e crudeltà efferate e inaudite, speculazioni abiette sulle disgrazie altrui, trasgressioni d’ogni tipo e le più nefande e odiose violenze sui minori.
Sono elementi fattuali che fanno riflettere e concludere come scriveva Luigi Firpo in una pagina dello scritto “Cattivi pensieri” che “gli uomini sono irrimediabilmente cattivi”.
Le delittuosità dilaga, la giustizia è lenta, indolente, impotente, ingiusta a volte connivente; i governanti, distanti dai veri problemi del popolo, sono abilmente corrotti da una avidità senza uguali nella storia della Repubblica; gli amministratori sono sorpresi ineluttabilmente con le mani nel sacco a conteggiare il soldo corrotto e rubato ad un popolo inerte e quasi assecondante o plaudente l’elemosina elargita come scambio di voto dal politico ladro di turno; il debito pubblico lievita vertiginosamente; i nosocomi determinano la fortuna di mafiose agenzie di pompe funebri; gli evasori totali riscuotono sussidi e attestati di benemerenza civica; i contribuenti scrupolosi corrono il rischio di finire sul lastrico per una formale svista.
Non mio pongo nell’ordine valutativo dei cultori di discipline filosofiche o di scienze metagiuridiche o fantagiuridiche, sollecitati a negare il primato del diritto e a sottolinearne la profonda crisi come strumento di difesa della società e di progresso dei valori.
Mi pongo bensì dal punto di vista dello studioso e dell’operatore professionale del diritto positivo, il quale non può non denunciare come le vere o presunte carenze e lacune nella legislazione, costituiscono spesso, per i reggitori e i detentori di potere ai diversi livelli, un comodo alibi, con cui giustificare o far dimenticare inefficienze, arbitrii, prepotenze, avidità.
Il nostro paese ha bisogno di impellenti ed improcrastinabili riforme strutturali, meditate, studiate e preparate nei loro strumenti applicativi e sottoposti al analisi preventiva di esperti e soprattutto al vaglio dell’opinione pubblica.
Il politico odierno non rappresenta più il popolo, bensì un’accolita tifoseria corruttibilmente interessata a scambi di favori e prebende.
Più passa il tempo e più ci si rende conto che i mali che affliggono il nostro paese dipendono esclusivamente dalla carenza di morale, senza la quale - come dice il filosofo De Dominicis – “non solo non si è colti, ma non si è neanche uomini”.

Scrive Giancarlo Caselli che per combattere la corruzione dilagante, oltre alle leggi necessita una ripresa d’orgoglio risorgimentale del popolo tale da imporre uno “Stato con mura di vetro e porte blindate” o diversamente in Italia si continuerà a ballare in attesa che il Titanic si inabissi.

mercoledì 22 luglio 2015

Datemi una maschera e vi dirò la verità (Oscar Wilde)


Riflessioni sulla verità giudiziaria


Di questi tempi non è facile giudicare!
Molto spesso l’unico ad essere criticato, sovente stritolato da quel terrificante mostro che si chiama opinione pubblica, è il giudice, il quale identificato nell’asino di Buridano, posto tra due cumuli di fieno perfettamente uguali e alla stessa distanza non sa scegliere quale iniziare a mangiare morendo di fame nell'incertezza.
Secondo l’apologo, tradizionalmente attribuito al filosofo Giovanni Buridano, l'intelletto è sempre in grado di indicare all'uomo quale sia la scelta giusta tra le varie diverse alternative tanto che se, per assurdo, la scelta fosse costituita da due elementi identici la volontà si paralizzerebbe a meno che non si scegliesse di non scegliere.
La scelta ontologicamente ragionata del giudice cozza anche biblicamente con il volere ondivago del popolo il quale, come si narra nel Vangelo secondo Matteo, e con la riluttanza dell’incerto Pilato che si lava le mani della annosa questione - unica autorità in grado di decidere una condanna a morte -, manda su input del volgo Gesù di Nazaret a morte.
In questo scorcio del XXI secolo stiamo assistendo alla elefantiasi del potere, in tutti i rami: dalla “protagonismopatia” alla “imbecillepatia”, dalla “megalopatia” alla “schizofrenopatia” tendenti ad asfissiare e stravolgere quelle personalità adamantine pur nate per scopi più civili, nobili ed illuminati.
La giustizia, per affermarsi, non ha bisogno di grandi buccinatori dell’effimero, di stonati strilloni del quotidiano o di stridenti corifei della cronaca.
La verità è una sola ed a questa il giudice deve tendere l’analisi, ricercandone ad ogni costo una sintesi delle cose, che al di là di ogni ragionevole dubbio indichi come non vi sia che la certezza della sola verità.
A monte di ogni problema ce n’è sempre uno irrisolvibile, che costituisce il problema più alto, ed è quello che riguarda la verità la quale rappresenta un rompicapo di tale potenza da far rivivere l’aforisma sottile e perfido secondo il quale: “Dite una bugia per un mese alla fine sarà verità”.
Pertanto, per sbalordire il mondo non c’è alcun bisogno che il giudice si trasmuti nel superomismo della filosofia di Nietzsche che ebbe nell’italico Gabriele D'Annunzio uno dei principali e più convinti epigoni.
Anche se Jean-Paul Sartre acutamente e spietatamente ebbe a dire che “La verità è una bugia”, il giudicante deve sempre inalberare la verità sulle miserie umane che si presentano dinanzi allo scranno, con la consapevolezza che costituisca l’ultima realtà obiettiva ponderabile sulla terra.
Gli ideali di verità, di libertà e di giustizia per i quali si batterono in epoche storiche passate Lisia, Demostene e Cicerone, costituiscono ancora l’humus sostanziale attraverso il quale si radica l’odierno afflatus con il quale si battono ancora gli avvocati di tutto il mondo.

Se la più grande avventura dell’uomo è stata quella di aver inventato la giustizia, e questa viene calpestata, allora il più grande errore di Dio è quello di aver inventato l’uomo, anche perché in fondo come disse Aristotele: “La verità sta in fondo a un urlo”!

lunedì 20 luglio 2015

Darei la vita per non morire


Riflessioni grottesche e ridanciane sulla Signora Morte


Diceva Epicuro di Samo, filosofo sui generis, a cavallo tra il 342 e il 270 a.C. che “Il male più terribile, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi la morte non c’è e quando c’è la morte non siamo più noi”.
La “Joie de vivre”, cantata quale inno alla gioia di esistere, è stata corteggiata da Baudelaire, da Rimbaud, da Verlaine, da Guy di Maupassant, da Victor Hugo e da altri sensibili poeti e intellettuali in molti scritti dove eroi, vigliacchi, scemi, cialtroni, santi, assassini, scienziati od analfabeti, si sono ritrovati a scontrarsi, mutandone la personalità al dottor Jekyll al mister Hyde di turno, con l’impari lotta esistente tra il bene e il male.
L’Oreste di Shakespeare non invano gridava “Spesso è da forte più che il morire, il vivere” ponendo questa ansia, questo anelito, questa attrazione verso l’esistenza vissuta al ritmo di pensiero, idea, lotta, rivoluzione e trasformazione.
Nell’Odissea, mentre Ulisse scende nell’Ade e incontra l’eroe supremo Achille, lo stesso Omero fa proferire a quest’ultimo tale incantevole e nostalgico fraseggio “Meglio essere l’ultimo degli uomini sulla terra che il primo qui nell’Ade”!
L’essere umano prepara tutto per la vita: festini, divertissementes, tripudi, bagordi, fuochi d’artificio e mille altre manie che riflettono l’esistenza, tanto da far scrivere a Freud che: “Amare la vita è l’unico mezzo sicuro per essere risparmiati dalla morte”.
Nel regno della morte probabilmente nessuno sarà felice, tanto che nel coro delle Eumenidi di Eschilo si legge “Orsù, staniamo dalle mura domestiche chi uccide. Dove andranno non esiste la parola felicità.”
I tramonti infuocati d’estate, le nuvole solitarie, le montagne altissime, i vulcani eruttanti, le etnie fratricide, la lotta della legge contro l’ingiustizia, la creazione artistica, la genialità degli inventori, la scrittura poetica, le scempiaggini dei politici per gabbare l’elettorato, le elucubrazioni teosofiche e filosofiche illuminano la vita come un fulgore a mezzanotte rendendola a tratti immortale.
Ma saltando di piè pari tutti i fossati della logica aristotelica e ulteriori filosofi supervenienti, approdiamo al pensiero di Schopenhauer, il quale nel suo poderoso libro “Il mondo come volontà e rappresentazione” asserisce: “Uscita dalla notte dell’incoscienza per aprirsi alla vita, la volontà si ritrova, come individuo, in un mondo senza fine e confini, tra innumerevoli individui, tutti pieni di aspirazione, di sofferenze ed errori, e, come se stesse attraversando un brutto sogno, cerca di ritornare in fretta all’antica incoscienza”.
L’amore per la vita sembra una espressione utopistica, essendone connesso il concetto di sofferenza, di tristezza, di angoscia, di stress: ma, indubbiamente, questo tratto ermeneutico è solo un paradossale “understatement”.
Se ci soffermassimo a considerare che la nostra esistenza è dipesa da una spocchiosa diatriba sulla frutta tra Dio e Adamo, di certo non mangeremmo solo mele ma anche pere, ciliegie, cocomeri e banane che la censura partigiana di allora non mise nel conto metafisico.

La rivoluzione di ogni cosa nel mondo, a cominciare dal ghigno di Caino per finire alla nascita di un essere umano, costituisce il risultato dell’attaccamento alla vita, come prodigio rappresentante il miracolo di se stessa.

domenica 19 luglio 2015

Dallo Stato di Diritto allo Stato di Disastro (Giudiziario)


Riflessioni su alcune inutili riforme giudiziarie



Una figura introdotta nell'ordinamento processualpenalistico italiano per sostituire quella del giudice istruttore è stata quella del giudice per le indagini preliminari (cosiddetto GIP), soggetto del procedimento penale italiano che interviene nella fase delle indagini preliminari, a garanzia della legalità delle stesse, esercitando dunque una giurisdizione di garanzia.
In quest’epoca alessandrina, in cui viviamo, dobbiamo ringraziare la Provvidenza non certamente il Ministero della Giustizia!
Infatti, molti veterani e decani del foro, avrebbero voluto tornare al vecchio, collaudato e storico Codice Rocco pregno di garantismo inquisitorio che essere raggirati dal rito accusatorio.
Il giudice delle indagini preliminari, che nella formulazione preparatoria dei lavori parlamentari doveva risolvere in melius, con una maggiore speditezza il processo penale riformato, garantendone la possibilità di filtrare una pletora inane di giudizi e conseguentemente precludendone la possibilità di far varcare i meandri dibattimentali al maggior numero di processi, dopo qualche lustro operativo si è dimostrato fallimentare.
Nelle udienze domina incontrastato l’art.425 del codice di procedura penale, dove per non rinviare a giudizio deve risultare evidente che il fatto non sussiste o che il reato non è stato commesso o che non costituisce reato ecc.
Questa lapalissiana “evidenza” ha mero valore interpretativo, perché oltre ad essere sottoposta all’egida a volte moralmente condizionata dall’omologo giudice requirente, non riesce quasi mai ad assurgere al livello di “insufficiente evidenza” paragonabile al vecchio concetto di “insufficienza delle prove”.
In queste condizioni procedimentali, i processi dopo le indagini del pubblico ministero arrivano sovente all’udienza dibattimentale anche a distanza di un anno, con un abbattimento poco filtrante che rasenta percentuali bulgare del 90%, cagionando ingorghi dibattimentali dinanzi al successivo giudice giudicante.
Ma mentre l’insufficienza di prove di ieri, conduceva all’assoluzione, la “insufficienza evidenza” di oggi che il fatto non sussiste non proscioglie.
Ma è uno dei tanti problemi che affliggono il pianeta marziano della giustizia.
Il dibattito è stucchevole e torna, ciclicamente, il tema della riforma della giustizia, viziato in partenza dal sospetto che a stimolarlo siano interessi di parte, addirittura ad personam, più che il tentativo di rispondere al diffuso e legittimo malcontento dei cittadini.
E si arriva alla paralisi che mantiene in essere lo status quo insopportabile di una casta di magistrati padroni del vapore e, di fatto, autoreferenziali ed impunibili.

Ma non è mai lecito generalizzare in una realtà anche costituita da tanti magistrati probi ed onesti che, nel disastro organizzativo e strutturale di un'amministrazione che non ha più nemmeno la carta per le fotocopie, continuano con enormi sacrifici personali a compiere manovre di bolina per raddrizzare la barca ormai prossima all'autoaffondamento.

venerdì 17 luglio 2015

Cronaca di un arresto annunciato

Riflessioni sulla spettacolarizzazione degli arresti



Negli ultimi anni si sono moltiplicate le tecniche di estorsione della verità, attraverso l’abuso di provvedimenti coercitivi, vagliati come strumenti di pressione psicologica funzionali a stanare dalla mente e dalla sofferenza dell’inquisito la verità costruita artificiosamente o snidare tra gli anfratti celebrali lesi dal regime carcerario la chiamata in correità.
Conformemente all’ideologia inquisitoria, in base alla quale il processo è uno strumento di produzione e non di solo accertamento della verità, la confessione dell’imputato costituisce l’esclusivo grimaldello avallante i fantasiosi teoremi requirenti, rendendo di fatto, dinanzi ad un giusdicente, caduche le prove elette dai codici e le argomentazioni accuratamente stilate dal curiale patrocinante, in netto oltraggio alla avverabile visione tecnica di punti di vista alternativi.
La verità viene prodotta in luogo del codicistico accertamento, attraverso la sostituzione dei principi giuridici con tecniche che rimandano alle metodologie inquisitoriali utilizzate dal gran persecutore spagnolo Tomás de Torquemada, il quale sviluppando la sua istituzione con zelo implacabile e spietato fanatismo, sparse il terrore della “Leggenda nera” in tutto il Paese.
La carenza di una rigorosa e scientifica metodica nella ricerca della verità, viene supplita dalla padronanza e dal dominio sull’inquisito, corroborata da ricatti legali o blandizie, attraverso una studiata strategia che parte:
- dall’abuso del processo, degradato a perfetto strumento di controllo sociale, invadente eterogenei settori della pubblica amministrazione, ove il terrore indotto dal tintinnio di schiavettoni, ceppi o ferri, induce molti sindaci a deliberare col parere preventivo dell’organo requirente locale;
- dalla restaurazione di un nuovo sistema inquisitorio con piglio torquemadiano, realizzato attraverso un legame organico tra l’apparato giudiziario e l’ideologia partitica unica;
- dalla spettacolarizzazione degli arresti o delle violate informazioni di garanzia, accrescenti la potenzialità distruttiva e devastante dell’apparato repressivo nei confronti dell’inquisito, serrato ante-processo nella gabbia d’acciaio della gogna elettronica propagandistica massmediale.
I problemi della giustizia non possono essere risolti con l’ausilio di virtù interpretative personali del giudice di turno, il quale potrebbe con i suoi enunciati vincolanti sovvertire o impedire il formarsi di contrappesi democratici all’interno del sistema costituzionale, ma solo con il sussidio istituzionale di validi controlli endoprocessuali, che nel quadro di un equilibrato sistema di poteri ne bilanci e garantisca l’imparzialità del giudizio.
Basta, pertanto, all’emergenza permanente, in virtù della quale si esige che lo standard morale dei cittadini e dei governanti debba essere risolto da una sorta di “eugenetica istituzionale” o da un “controllo educativo di stampo giudiziario” praticato su una società disciplinare alla Michel Foucault.

Parafrasando Michel Foucault “La libertà di giudizio (ndr coscienza) comporta più rischi dell'autorità e del dispotismo. (Foucault Michel, Raymond Roussel, Editore Cappelli Anno 1978)

mercoledì 15 luglio 2015

Avvocatura da fiction


Riflessioni sulle fantasiose e illusorie soap opera della gaudente vita degli avvocati


Nella società borghese ed illuminata del secolo scorso, la Giustizia, il processo e in esso l’Avvocato Principe del Foro, assurgevano a mitici rappresentati di una ritualità pagana celebrante i fasti e tendente a sublimare rancori, tensioni e conflitti in un sistema sostanzialmente conchiuso capace di autointegrarsi.
La funzione politica in senso lato del processo, trovava il suo acme nella fase culminate del dibattimento, nella quale si ergeva la funzione culturale del notabile del Foro, il quale stagliava la giusta parola contro le diseguaglianze e le ingiustizie.
La chiave di volta di questa rappresentazione di tecnicismi culturali, si concretava all’interno di complessi ed equilibrati templi pagani moderni, consacrati alla individuazione della Verità e spogli dalle fuorvianti espressioni neglette delle insulse mediazioni massmediatiche.
L’Avvocato in quella realtà costituiva il Principe primo attore, incarnante la dea bendata nella garanzia di tenutezza di un sistema complesso, ove i Giudici dovevano fornire - per confermare la validità e la vigenza del sistema - risposte solo con le sentenze.
L’Avvocato così veniva a plasmarsi ed essere ricompreso in una tipologia sostanzialmente unica, caducata da inani esibizioni di vanagloria pseudo giornalistica, rappresentando in concreto la silente forza della parola esatta e ragionata sul caos interpretativo di irragionevoli istanze di condanna.
Il processo con l’apporto erudito e partecipativo dei Principi del Foro, costituiva un vero e proprio strumento rituale del consenso partecipato democraticamente.
Gli Avvocati, con variegate qualità intellettuali e soggettive, hanno da sempre svolto una capillare funzione di vera e propria formazione culturale e democratica, attraverso gli innumerevoli casi quotidianamente trattati nelle aule di giustizia, ove trovavano la sede più propizia per un così eminente compito delegato a contribuire alla costruzione di una elevata e sensibile coscienza collettiva.
Certo i tempi hanno mutato la morfologia ontologica e semantica del ruolo dell’avvocato e delle sue preminenti funzioni, rendendolo non più omologabile in un normotipo tipologico, piuttosto catapultandolo in una variegata e molteplice verifica e tutela degli interessi in conflitto, con l’apertura di nuovi scenari e l’emergere di nuove figure di giuristi.
Non tutti i giuristi, chiamati ad adempiere a ruoli sempre più sofisticati e specialistici, ma pur sempre coerenti col fine interpretativo ed applicativo della legge, possono essere considerati Avvocati, in quanto i livelli degli interventi e la formazione culturale incidono sostanzialmente sulla qualità dei risultati.
Rivestire la funzione di Avvocato, significa incarnarne un ruolo non enfatico o pittorescamente telegenico, ma essere sempre in linea con le emergenze del momento navigando a vista nel mare solitario del terribile ed esaltante quotidiano.

“Se non ci fosse gente cattiva, non ci sarebbero buoni avvocati.” (Charles Dickens, La bottega dell'antiquario, 1840)

martedì 14 luglio 2015

Comuni…fusi!

 Sulla necessità di unificare gli enti locali


La fusione, nell'ordinamento statuale e nel diritto amministrativo italiano è l'unione fra due o più comuni contigui ed è disciplinata dal Testo Unico degli Enti Locali, approvato con Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n.267.
Dal 1° gennaio 2014 il numero ufficiale dei comuni italiani è pari a 8.071 unità amministrative, solo in Calabria sono 409.
Ma servono tutti questi comuni?
Alcuni enti locali hanno iniziato ad unificare prima gli uffici tecnici (infatti si riscontra lo stesso tecnico in più comuni) così come il Segretario Comunale lo si ritrova a scavalco tra più municipi, per non parlare della polizia municipale con gli organici accorpati per territori limitrofi.
E’ bene unirsi per minimizzare i costi e massimizzare i profitti, ma di fatto pur determinandosi in questo virtuoso proposito, non lo fanno fino a cancellare il sindaco e il consiglio ed imporre un unificante dictator romano, a questo ci pensa la praefectura quale organo decentrato delle amministrazioni.
Certamente non sono i costi stipendiali del sindaco e degli assessori o i gettoni di presenza dei consiglieri a defraudare le emaciate poste dei bilanci comunali, ma sicuramente gli appalti e gli incarichi pubblici sono una spesa importante che fa gola a molti politici corrotti.
Unificare gli enti locali limitrofi, attraverso il referendum consultivo dei residenti in questi comuni, è la sola strada maestra percorribile se si vuole seriamente parlare di risparmio nella spesa pubblica e contestuale diminuzione delle tasse e dei balzelli locali.
L’unificazione dei comuni rappresenta il futuro del nostro territorio.
Da una gestione unitaria e più efficiente delle risorse nel territorio si ricaverebbe una serie di importanti vantaggi: trasporto pubblico locale, gestione del ciclo dei rifiuti, urbanistica, politiche del turismo e della cultura, sono tutti settori in cui ci sarebbe sempre più bisogno di concertazione e raccordo.
Devo veramente credere che l’identità culturale dei comuni verrebbe messa a repentaglio dalla fusione, quando, per converso la necessità di "unificare le forze" renderebbe più efficace e funzionale la presenza di consistenti Comuni all'interno di una società ben organizzata a servizio dei Cittadini?
Se la carenza di vocazioni ha imposto allo Stato Vaticano di accorpare molte parrocchie, la inflattiva vocazione laica di candidarsi a sindaco non subisce cali sintomatici, per cui credo che l’unificazione e la riduzione degli incarichi politici nei comuni sarà necessaria e transiterà non più per referendum consultivi, ma verrà imposta per legge come peraltro sta succedendo per le Province.

domenica 12 luglio 2015

Ciascuno è figlio di una madre

  Considerazioni sulla tutela dovuta alla maternità e all'infanzia.

Nel nostro patrimonio di conoscenze la relazione materna è concepita come un fenomeno naturale a valenza biologica.
Sotto il profilo ontologico secondo quanto asserisce Eva Kittay “Ciascuno è figlio di una madre”, pertanto, ciò configura il primo e sostanziale afflatus che lega la madre al figlio.
Sotto il profilo antropologico, l’eredità simbolica che è insita nella esperienza cromosomica del mondo femminile, ne caratterizza la fenomenologia dell’agire materno sotto i più variegati aspetti.
Sotto il profilo psicologico, il fondamentale ruolo materno si concretizza sin dall’inizio della vita del bambino, attraverso gesti, parole, visioni che vengono interiorizzati ed elaborati e che costituiranno l’humus ancestrale nutritivo.
Il rapporto tra madre e figlio è una relazione incarnata per eccellenza, generatrice di evenienze esistentive che ne costituiranno paradigmaticamente l’essenziale substrato di crescita e di sviluppo.
La madre, considerata da Sara Ruddick quale generatrice di cultura, non solo garantisce il perpetrarsi della vita in una comunità, ma ne plasma il linguaggio ed il sapere dei nuovi venuti, attraverso una serie di pratiche che di fatto pongono le basi della futuribile e costituenda società.
Ma questo Eden appena narrato, a volte si scontra con elementi di complessità, di incertezza e di oscurità, laddove si scorgano sentimenti materni ambivalenti sfocianti in casi limite, ma attuali, nell’abbandono dei figli per giungere a forme di violenza che si tramutano in imponderabile follia.
Ciò può dipendere da un mutato senso di responsabilità, che incide nell’edonismo femminile, sconvolgendone l’essenza in nuce e provocandone esperienze emotive così complesse ed insostenibili per una madre.
L’abusato principio del rispetto delle regole deve essere soppiantato da un nuovo paradigma pedagogico, generante un nuovo orizzonte etico, dove secondo quanto sostiene Peta Bowden, il ruolo delle madri deve costituire il fondamentale principio della responsabilità vitale per il piccolo.
La valenza pedagogica materna, costituisce, pertanto, l’asse paradigmatico di un discorso prassico, tendente alla individuazione delle migliori pratiche educative percorribili o praticabili.
La verità è che un bambino per assurgere allo status di essere, deve avere un sostegno necessario e sufficientemente valido, onde facilitarne in senso formativo di quella identità che ne plasmerà nel prosieguo della esistenza la personalità.
Il sostegno materno (holding) e la presenza della genitrice, realizzano una pluralità eterogenea di comportamenti qualificanti, che ne stimolano la crescita e lo sviluppo fisico e psicologico, evitando la formazione di quelle angosce che nell’infante potrebbero insidiarne la salute fisica e psichica e avere conseguenze letali anche in età adulta.

“La maternità e l'infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.” (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani - Articolo 25, 1948)

sabato 11 luglio 2015

Chi comanda in Italia?


Riflessioni sui nuovi Sicofanti della giustizia italiana



Un’antica vocazione degli italiani è quella di genuflettersi osannando i poteri considerati “provvidenziali”.
In un ieri passato l’invocazione era per il Duce, supremo reggitore dei destini della Patria Imperiale.
Con la caduta del Fascio, la “ribellione delle masse” si stemperò nell’attesa salvifica di una pletora di partiti, i quali avrebbero determinato le future sorti della fantomatica repubblica parlamentare fondata sul lavoro!
In definitiva tutti i sedimenti di culture confessionali, integralistiche, fideistiche di matrice sia cattolica che marxista, cospiravano a determinare le tendenze irreparabilmente politiche per le future generazioni.
Un effetto di tali guasti è la infatuazione dei municipali (rectius cittadini) per l’opera (sic…) della Magistratura.
Si tratta in fondo di antichi retaggi od eredità inquisitoriali, che inducono larghe fasce di cittadini ad amare di più il pubblico Ministero e il Giudice, anziché la Difesa.
Su questa costituzionalmente insana esaltazione, alimentata giornalmente dai mass-media, si asside il nuovo culto pagano del “potere giudiziario”, considerato dal popolo come il reale detentore del potere temporale titolato da questi simulati papi, che avocano una serie di ingenti poteri, impensabili in passato, alimentati dalle sacrosante inchieste di mafia e tangenti oltreché dall’esorbitante sacrificio, ingiusto, pagato con la vita da alcuni esemplari magistrati.
Ma il potere straordinariamente pervasivo, pregno di effetti di eccezionale gravità invadente le sorti democratiche, è lo scardinamento operato dai giudici attraverso la obbligatorietà dell’azione penale o l’ininterrotta e delegata iniziativa investigativa contro i rappresentanti parlamentari del regime democratico popolare.
Questo scardinamento si è concretizzato in due importanti punti:
- il primo, si è materializzato nella modifica strutturale ed incostituzionale dell’immunità parlamentare, nata come prerogativa storica a tutela dei Parlamenti contro gli attacchi del potere regio, è finita oggi in Italia col soggiacere alla imposizione del nuovo “potere sovrano”, quello giudiziario, il quale con una pressione demolitiva continua ha finito col condizionare le stesse decisioni delle assemblee popolari;
- il secondo, ha preso corpo attraverso l’alterazione costituzionale del rapporto fiduciario tra il potere esecutivo e legislativo e quello Presidenziale.
I Presidenti della Repubblica, massima espressione costituzionale della funzione di controllo e di indirizzo politico, hanno dovuto soggiacere al clima di supremazia del potere giudiziario aggravando la grave asimmetria tra i poteri dello Stato con degli psico-risibili comportamenti che da un lato esortavano alla concordia nei rapporti tra poteri, dall’altro davano la carica a magistrati “giustizieri” od “orologieri”, facendo così mostra di dubbio rigore costituzionale.

Di tale pseudo-rigorismo in questo periodo di grave ed inarrestabile regressione morale, economica e finanziaria ne faremmo certamente a meno, concretando gli elogi agli infaticabili e indefessi magistrati che silentemente prestano la loro retribuita opera, con quelli vergati con inchiostro indelebile dal giurista Piero Calamandrei, il quale affermava come “È arduo codificare l'indipendenza. Occorrono certo la terzietà e l'imparzialità ma occorre anche che terzietà e imparzialità siano assicurate sotto il profilo dell'apparenza... Il giudice ad esempio dovrebbe consumare i suoi pasti in assoluta solitudine.”
Certificato pedofilo!
Paradossi normativi sulla certificazione antipedofilia


Una norma entrata immediatamente in vigore è quella per cui, coloro che sono a contatto con minori hanno l’obbligo di presentare il Certificato Penale rilasciato dal Tribunale.
La disposizione normativa contenuta nel decreto legislativo numero 39 del 4 marzo 2014 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.22/2014 che fa scattare l’obbligo del certificato penale per chiunque lavora con i minori, getta nel caos il mondo delle associazioni sportive e del volontariato.
Diversamente detto, chi è a contatto con ragazzi in oratori o in squadre sportive dovrà esibire, a richiesta di autorità, il documento che sancisce di non essere iscritto al casellario giudiziario per reati contro i minori.
Detta così pare una disciplina alimentata da ottimi propositi, che il legislatore vanifica non considerando la pletora di richieste certificatorie inoltrate presso tutte le cancellerie delle procure in totale assenza di istruzioni per l’attuazione.
Il punto è che, attualmente, non esiste un modello di certificazione predisposto ad hoc che indichi solo i reati specifici legati alla pedofilia, né un modello simile è stato immaginato per la nuova norma, pertanto, tutte le certificazioni rilasciate potrebbero contenere una serie di informazioni non necessarie, mettendo a serio rischio la privacy di qualsiasi lavoratore.
Si avvertiva veramente la necessità di una inane procedura burocratica, alimentata da una legge cervellotica e da una circolare del ministero di Giustizia che chiarisce come l’obbligo non grava su “enti e associazioni che intendano avvalersi dell’opera di volontari”?
Questa ennesima norma kafkiana grava solo sulle imprese e sui datori di lavoro che impieghino in modo retribuito i relativi addetti, consentendo ai pregiudicati nel campo della pedofilia di operare indisturbati nel settore del volontariato.
Venendo sul piano delle sanzioni, siffatta macroscopica diversità genera uno dei tanti paradossi di questa sventurata Nazione: chi assume ed impiega pedofili volontari a sua insaputa non sarà sanzionalmente perseguito, mentre il poco solerte datore di lavoro che non produce il certificato penale per un suo dipendente che ha contatto lavorativo con minorenni –anche se incensurato- è costretto a sborsare una multa da 10.000 a 15.000 euro.
Più che al reato sostanziale, la norma sembra orientata a dare la caccia all’errore formale.
Insolente Stato leviatano che si arroga di tutelare i minori a colpi di costose carte bollate.

O tempora, o mores!

venerdì 10 luglio 2015

Bocciati!
Storie di inutili commissariamenti prefettizi

Chiedo venia ai lettori se questa volta non utilizzerò il consueto tono un po’ leggero.
Infatti, volendo commentare “a caldo” la bocciatura della Corte dei Conti al chiesto piano di riequilibrio del Comune di Taurianova, e sapendo quanto la dignità e il decoro nelle espressioni e nelle critiche siano importanti, cercherò di attenermi a tali canoni.
L’approvazione del piano di riequilibrio finanziario pluriennale dell’ente, lapalissianamente lacunoso e pubblicamente insostenibile nel redatto documento sottoposto al vaglio delle autorità delegate al riequilibrio non si reggeva assolutamente in piedi.
Un Comune con una ingente massa passiva data dai residui passivi, dai debiti fuori bilancio, dalle obbligazioni di competenza e dagli oneri restitutori delle anticipazioni straordinarie, non ha certamente potuto comprovare l’effettiva sostenibilità del piano in termini di cassa.
Oggi arriva la notizia della bocciatura della Corte dei Conti, una bocciatura che addolorerà profondamente nell’immediato futuro le nostre casse, rendendo evidente e senza infingimenti o elucubrazioni mentali, come la città sia stata guidata incompetentemente e dannosamente e portata sull’orlo della instabilità.
Ancora una volta saranno i cittadini che si troveranno a pagare le aliquote massime per i mutanti acronimi di tasse, imposte ed annessi balzelli, a fronte di una continua diminuzione dei servizi garantiti.
Non c’è altro tempo da perdere, aumentando le tasse al massimo o azzerando i servizi il problema non lo si risolve. C’è bisogno di un atto di responsabilità dei gerenti la cosa pubblica: si deve prendere consapevolezza del fatto che è una tragedia per la città.
La formalizzazione giuridica del dissesto, peraltro, fattualmente in atto ormai da troppo tempo, concretizzato dalla relazione della Corte dei Conti, lungi dal costituire un danno per il Comune, potrebbe consentire al medesimo di utilizzare lo strumento giuridico del dissesto previsto dal nostro ordinamento per la tutela degli enti locali in decozione.
Le rassicurazioni di una celere opposizione al competente organo contabile, lascia sconcertati in considerazione dei costanti rigetti dell’organo collegiale deputato al riesame della questione.
Non serve fare demagogia, non si va da nessuna parte, così operando ci si rende corresponsabili del declino sociale, economico, culturale ed ambientale della città.
Taurianova ha bisogno di una governance capace di recuperare il tempo perduto, risolvere le emergenze e guardare fiduciosa verso il futuro, con persone che si dedichino completamente alla città, con passione, competenza ed efficienza.
E la strada del dissesto è realmente sempre più vicina e concreta.

Buon default a tutti.
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia
 perché saranno giustiziati. (Piergiorgio Bellocchio)

Riflessioni sull’anarchismo istituzionale

C’è una sempre più pervicace convinzione che i giudici attuino con il loro operato un’opera di moralizzazione della giustizia.
L’emergenza giudiziaria, che oramai dura da molti lustri, sembra che abbia trovato nell’ordine giudiziario la sua definitiva istituzionalizzazione.
I giudici politicizzati moralizzano la giustizia, non nel senso di renderla morale, ma nell’attuare scientemente e razionalmente i propri rancori e interessi, avallandoli con apparenti motivazioni e conferendo alla loro azione repressiva un’aura di “moralità”; incitati in questo da una pletora oscurantista di giustizialisti che contribuiscono, da buona claque mediatica, ad investirli di una missione storica che nessuna norma divina o temporale ha instillato o conferito.
La ripetuta violazione dei principi costituzionali e la disapplicazione sistematica delle regole dei codici, che sono espressione travasata dei primi principi di fonte normativa, viene recepita ed interpretata come una “forzatura necessaria” che trova il necessario alibi apparentemente irrefutabile in una deflazionante e camaleontica emergenza giudiziaria.
La strategia viene costruita attraverso l’occultamento del vero tema tra locuzioni vaghe, confuse ed equivoche, che nella loro opacità interpretativamente soggettiva, consente ai giudici di riempire quegli spazi vuoti con delle proiezioni personali, estemporanee e sovversive del diritto costituito.
Viene a realizzarsi un sistema di locuzioni sradicate dalla realtà, con strumentali forzature che si traducono in slogans in cui la violenza legale attuata si pietrifica in una dispotica forza rasentante l’abuso di potere.
Chiaramente è una tecnica che conduce alla svalutazione, alla banalizzazione e conseguentemente alla rimozione del problema.
I giustizialisti, zelanti fautori delle tesi giustificazioniste, maestri nell’arte della persuasione occulta, scorgono sempre qualche argomento sentimentale fideiussore del loro deprecabile assunto: biasimano gli avversari nel voler ledere la prerogativa della indipendenza dei giudici ricorrendo alla pantomìmica recita della commedia dell’indignazione.
Mentre in uno stato di diritto - nel quale la legalità è una forma derivata dalla legittimità - la legittimazione avviene attraverso la procedura, basata su esigenze di razionalità e di controllo, nell’attuale stato di anarchia istituzionale e di delegificazione interpretativa, scorgiamo un fondamento emotivo e non legalmente razionale che lede la stessa natura legittimante il potere giudiziario.
La legittimità del potere che è monopolizzato dallo Stato moderno e si concretizza attraverso l’osservanza dei procedimenti giuridici e nella legalità delle decisioni, si è scontrato con le emergenze giudiziarie (corruzione, mafia) provocando di fatto, attraverso il moralismo di massa, la sottrazione o addirittura la soppressione del valore costituzionale e della legittimazione razionale e legale.
La sottrazione di legittimazione razionale-legale ha portato alla perdita della terzietà del giudice, il quale trova il suo alimento nel consenso mass-media o negli applausi del circo mediatico; alla creazione di miti artificiali, privi di verità precostituite; alla trasformazione dell’ordine giudiziario in un politicizzato contropotere.

“Giustizia. Un articolo che lo stato vende, in condizioni più o meno adulterate, al cittadino, in ricompensa della sua fedeltà, delle tasse e dei servizi resi.” (Ambrose Bierce, Dizionario del diavolo, 1911)
Arrivano le Croci…Rosse!

Riflessioni sulla mala gestio locale

Gli italiani non hanno memoria diceva qualcuno, ma i cittadini del contado taurianovese in questa innata dote una benevola genetica probabilmente li avrà privilegiati.
Gli inani ragguagli dell'amministrazione sulla vicenda Tares e tributi e le consequenziali manifestazioni di vicinanza dei commissari al tapino popolo, sono stati inversamente proporzionali alle determinazioni fattuali dei soggetti settorialmente titolati a dirigere.
Certo capisco che un antico e complice retaggio gestionale abbia dimostrato lapalissianamente l’incapacità a gestire ed esternalizzare il servizio di riscossione tributi, ma pensare di gravare inopinatamente e reiteratamente sulle già striminzite casse delle famiglie taurianovesi, lo considero un eccesso di zelo contabile avulso dalla reale e tangibile consistenza dei servizi municipali garantiti.
Insomma, ente ti pago se mi garantisci un servizio, diversamente come disse qualche eroe patrio resisto e mi oppongo!
L'Amministrazione, ora comunque intende esternalizzare nuovamente la riscossione delle prebende comunali, quando come previsto dalla legge sulla stabilità, avrebbe potuto mantenere e prorogare di un anno il contratto con la esistente società gestente il servizio e contemporaneamente formare alcuni dipendenti comunali, più volenterosi e propensi, per la definitiva internalizzazione del servizio di riscossione dei tributi.
Quanto si risparmierebbe? Qualcosa non torna!
Ciò non è riferito con la presunzione di novelli stregoni, ma nella feconda speranza che possa sensibilizzare le volontà amministrative e contabili di elementi non delegati dal popolo a mantenere vivo ed attuale quel contratto sociale esistente tra il cittadino e l’amministratore, compendiato dal grande Jean-Jacques Rousseau.
Al di là delle antiche o presenti responsabilità politiche e amministrative che stanno emergendo in tutta la loro evidenza e ricapitolate nell'incapacità di gestire la cosa pubblica con senso di responsabilità, nella mancata ottemperanza ai principi fondamentali della corretta amministrazione e quant’altro e generanti questo disastro oramai conclamato, il nodo fondamentale resta un altro: chi pagherà tutto questo?
Domanda ovviamente retorica, saranno i cittadini. Gli aumenti di Tarsu, Tares, Tosap, IMU, ICI, servizi cimiteriali, oblazione per condono edilizio, imposta di scopo, contributo di soggiorno sono il conto da pagare, ironia della sorte a conclusione anche di antiche stagioni amministrative.
Urge una politica virtuosa e di rigore, fatta di responsabilità, trasparenza e partecipazione. Il Palazzo di città è la casa di tutti i cittadini e non lo studio privato di qualcuno poco interessato al bene comune.

Non preoccupatevi, indubbiamente tutto sarà appianato, solo che ciò avverrà ancora una volta a spese dei cittadini.

giovedì 9 luglio 2015

Antigone e Socrate

Riflessioni sul rapporto tra legge ingiusta e processo iniquo


Antigone e Socrate, due figure simbolo dell’antica Grecia furono messe a confronto da Hegel nelle sue Lezioni di storia della filosofia.
Due morti paradigmatiche, entrambe provocate dallo scontro personale con il potere dello Stato e col suo più speculare strumento: la legge.
Entrambe volute ed accettate affinché, dal sacrificio, erompesse un messaggio per le generazioni future.
Antigone è condannata a morte da Creonte, re di Tebe, per aver violato un editto col quale si comminava la pena di morte a chi avesse dato sepoltura ad un traditore della patria.
Polinice, fratello di Antigone, era morto da ascaro combattendo contro la sua patria Tebe.
Antigone rifiuta l’obbedienza all’editto sull’assunto che lo stesso fosse in contrasto con altra un’altra legge non scritta ma applicata consuetudinariamente ossia quella di dare onorevole sepoltura ai defunti: tra la legge del re e la legge divina e del popolo osserva quest’ultima.
Viene arrestata e al cospetto del re Creonte è irremovibile nel contestare il potere di legiferare, andando incontro, conseguentemente, alla condanna a morte che blandisce impiccandosi.
Antigone si erge contro il re e, forte della sua fragilità di fanciulla, rivendica l’inviolabilità dei diritti originari appartenenti alla comunità ed alle singole persone che la costituiscono.
Socrate, invece, subisce un processo con l’accusa di corruzione degli animi dei giovani adepti, per aver inculcato insegnamenti in contrasto con le credenze sugli Dei tradizionali.
Respinge l’accusa con autorità e fermezza, proclamando il principio per il quale il pensiero e la coscienza, se posti al servizio della verità, non debbano incontrare censure.
Nonostante la transazione sulla pena e la pianificata fuga proposta da Critone, Socrate va incontro alla morte non sottraendosi alla esecuzione della stessa.
Il leitmotiv che accomuna Antigone e Socrate è che entrambi sfidano il potere, consapevoli che ciò li condurrà ad una sicura morte, per un’idea di giustizia che considerano più grande della loro stessa esistenza.
Il filosofo Hegel raffrontando le due personalità, ravvisa in Socrate una contraddizione di fondo, per aver rifiutato la fuga in ossequio alla leggi, mentre per converso durante il processo disprezzò le norme e respinse la pena alternativa della transazione.
In Antigone la coscienza di essere nel giusto ed iniquamente sottoposta ad una pena totalitaria, non la conduce ad acquiescentemente subirne la portata: essa contesta allo Stato il potere assoluto di legiferare, rivendicando, al contrario, al popolo una sfera di diritti inviolabili.
Nel contrasto oppositivo, creato attraverso il personaggio di Antigone dal drammaturgo Sofocle, tra suddito e re, tra cittadino e Stato è agevole prevedere l’archetipo della struttura degli Stati moderni ed il concetto di sovranità relativa di Rousseau il quale nel Contratto Sociale, pone a base della delega conferita dai governati allo Stato, la necessaria restituzione e garanzia delle libertà originarie sotto forma di diritti.
Antigone non contesta né il processo né la condanna, considerati come effetti ingiusti, ma ineluttabili, di una legge sostanzialmente ingiusta.
Socrate è esattamente al polo opposto, egli non contesta la legge la cui giustezza gli appare inoppugnabile, ma l’applicazione in concreto della norma ad un processo iniquo.
L’insegnamento di Antigone e Socrate ci conduce ad affermare come se è pur vero che lo Stato abbia il potere-dovere di emanare le leggi, le stesse devono essere supportate dalla necessità e dalla utilità oltre che nei precetti e nelle sanzioni, nella proporzionalità allo scopo che si propongono di regolamentare.
I giudici hanno il compito di applicare le leggi nella lettera e nello spirito, ripudiando ogni tentativo malcelato di sovrapporsi ad esse.
I cittadini hanno il dovere di sottomettersi alle leggi, quando queste non costituiscano una evidente usurpazione della sovranità popolare, in tali casi “Quando l'ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere.” (Bertolt Brecht)