Darei la vita per non morire
Riflessioni grottesche e ridanciane sulla Signora Morte
Diceva Epicuro
di Samo, filosofo sui generis, a cavallo tra il 342 e il 270 a.C. che “Il male
più terribile, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi la
morte non c’è e quando c’è la morte non siamo più noi”.
La “Joie de
vivre”, cantata quale inno alla gioia di esistere, è stata corteggiata da
Baudelaire, da Rimbaud, da Verlaine, da Guy di Maupassant, da Victor Hugo e da
altri sensibili poeti e intellettuali in molti scritti dove eroi, vigliacchi,
scemi, cialtroni, santi, assassini, scienziati od analfabeti, si sono ritrovati
a scontrarsi, mutandone la personalità al dottor Jekyll al mister Hyde di turno, con l’impari lotta esistente tra
il bene e il male.
L’Oreste di
Shakespeare non invano gridava “Spesso è da forte più che il morire, il vivere”
ponendo questa ansia, questo anelito, questa attrazione verso l’esistenza
vissuta al ritmo di pensiero, idea, lotta, rivoluzione e trasformazione.
Nell’Odissea,
mentre Ulisse scende nell’Ade e incontra l’eroe supremo Achille, lo stesso
Omero fa proferire a quest’ultimo tale incantevole e nostalgico fraseggio “Meglio
essere l’ultimo degli uomini sulla terra che il primo qui nell’Ade”!
L’essere umano prepara
tutto per la vita: festini, divertissementes, tripudi, bagordi, fuochi
d’artificio e mille altre manie che riflettono l’esistenza, tanto da far
scrivere a Freud che: “Amare la vita è l’unico mezzo sicuro per essere
risparmiati dalla morte”.
Nel regno della
morte probabilmente nessuno sarà felice, tanto che nel coro delle Eumenidi di
Eschilo si legge “Orsù, staniamo dalle mura domestiche chi uccide. Dove
andranno non esiste la parola felicità.”
I tramonti
infuocati d’estate, le nuvole solitarie, le montagne altissime, i vulcani
eruttanti, le etnie fratricide, la lotta della legge contro l’ingiustizia, la
creazione artistica, la genialità degli inventori, la scrittura poetica, le
scempiaggini dei politici per gabbare l’elettorato, le elucubrazioni teosofiche
e filosofiche illuminano la vita come un fulgore a mezzanotte rendendola a
tratti immortale.
Ma saltando di
piè pari tutti i fossati della logica aristotelica e ulteriori filosofi
supervenienti, approdiamo al pensiero di Schopenhauer, il quale nel suo
poderoso libro “Il mondo come volontà e rappresentazione” asserisce: “Uscita
dalla notte dell’incoscienza per aprirsi alla vita, la volontà si ritrova, come
individuo, in un mondo senza fine e confini, tra innumerevoli individui, tutti
pieni di aspirazione, di sofferenze ed errori, e, come se stesse attraversando
un brutto sogno, cerca di ritornare in fretta all’antica incoscienza”.
L’amore per la
vita sembra una espressione utopistica, essendone connesso il concetto di
sofferenza, di tristezza, di angoscia, di stress: ma, indubbiamente, questo
tratto ermeneutico è solo un paradossale “understatement”.
Se ci
soffermassimo a considerare che la nostra esistenza è dipesa da una spocchiosa
diatriba sulla frutta tra Dio e Adamo, di certo non mangeremmo solo mele ma
anche pere, ciliegie, cocomeri e banane che la censura partigiana di allora non
mise nel conto metafisico.
La rivoluzione
di ogni cosa nel mondo, a cominciare dal ghigno di Caino per finire alla
nascita di un essere umano, costituisce il risultato dell’attaccamento alla
vita, come prodigio rappresentante il miracolo di se stessa.
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